Recensione de Il ballo di Sceaux, di Honoré de Balzac
Passigli, Biblioteca del viaggiatore, 1993
Inizio con questo racconto una nuova serie di letture balzachiane, composta da ben sei titoli, che farà avanzare di non poco il mio progetto di lettura completa della Comédie humaine, progetto peraltro condizionato dal persistere dell’indisponibilità di oltre una ventina di opere in edizione italiana. Per la verità ogni tanto qualcosa si muove: ad esempio recentemente la casa editrice Robin ha dato alle stampe Gli Chouans, primo romanzo firmato da Balzac con il suo nome, che mancava dagli scaffali da alcuni anni. Resta il fatto che per cercare di portare a compimento l’ardua impresa molto probabilmente dovrò ricorrere al mercato dell’usato, con tutti i rischi e le incertezze che ciò comporta. Anche Il ballo di Sceaux è oggi difficilmente reperibile in libreria: edito nel 1993 e poi nel 2008 da Passigli, peraltro riprendendo l’edizione BUR del 1960 con la traduzione di Nanda Colombo, oggi deve essere cercato a magazzino.
All’interno della articolata catalogazione tassonomica che costituisce la struttura della Comédie humaine di Balzac, Il ballo di Sceaux si colloca tra gli Études de moeurs, nella sezione Scènes de la vie privée. È questa la sezione più ampia di tutta la Comédie, essendo composta di ben 27 titoli, tra i quali compaiono alcuni dei romanzi capitali dell’intera opera dello scrittore di Tours, su tutti sicuramente Le Père Goriot. Il lungo racconto fu pubblicato dal trentenne Balzac nel dicembre del 1829, qualche mese dopo Les Chouans, e costituisce pertanto una delle opere d’esordio della Comédie, venendo pubblicato prima che Balzac concepisse la sua struttura, ufficializzata nel 1834 nella famosa lettera a Madame Hanska.
Come noto, una delle caratteristiche salienti della Comédie humaine è l’ambizione di rappresentare la società francese del tempo, o meglio del periodo che va dalla rivoluzione alla monarchia di Luigi Filippo, convulso periodo che vide la definitiva affermazione del potere della borghesia. Uno dei capisaldi del realismo balzachiano è pertanto costituito dall’ambientazione nella contemporaneità dei singoli episodi che costituiscono l’immenso edificio, anche se si deve notare come nel cinquantennio che costituisce tale contemporaneità si siano susseguiti diversi regimi e tre rivoluzioni, corrispondenti a fasi storicamente diverse della incessante lotta tra l’Ancien Régime e il terzo stato.
Il ballo di Sceaux, il cui titolo originale suona Le Bal de Sceaux, ou le Pair de France, non si sottrae a questa regola: scritto, come detto sopra, probabilmente nel 1829, i fatti narrati nel racconto si svolgono di fatto tra l’estate dopo ”il primo inverno che seguì all’avvento di Carlo X”, vale a dire quella del 1825, e circa tre anni dopo. Precedono questi fatti, tuttavia, una trentina di pagine nelle quali Balzac introduce dapprima il personaggio del conte de Fontaine, risalendo agli anni della guerra di Vandea, quindi sua figlia Émilie (che nella traduzione, appartenente all’epoca in cui i nomi stranieri venivano italianizzati, diviene Emilia di Fontaine), protagonista del racconto. La valenza che soprattutto le prime pagine – nelle quali viene presentato il conte e ne viene riassunta la vita – assumono sia dal punto di vista formale sia da quello politico nell’economia del racconto è tale che mi corre l’obbligo di riassumere questa sorta di antefatto, scritto magistralmente da Balzac al fine di inquadrare i fatti che seguono nella narrazione.
Il conte, appartenente ad una delle più antiche famiglie del Poitou, ha servito i Borboni sin dai tempi della rivoluzione, partecipando alla battaglia dei Quatre-Chemins de L’Oie (1793). Finanziando l’insurrezione vandeana e a causa delle confische della Repubblica si è di fatto rovinato. Nonostante ciò ha resistito a tutte le lusinghe del periodo napoleonico, nel quale numerosi nobili realisti si erano riciclati. Da aristocratico vecchio stampo ha infatti preferito sposare, invece della figlia di un ex rivoluzionario arricchito che mirava al suo titolo, la rampolla senza dote di una delle più antiche famiglie bretoni, i de Kergarouët, con la quale ha fatto ben sei figli, tre maschi e tre femmine. Trasferitosi a Parigi all’inizio della restaurazione, si è fatto ricevere da Luigi XVIII per rivendicare il suo diritto al ristoro delle fortune perse per la difesa della monarchia, ma con scarso successo. Tuttavia, accompagnando il Re nell’esilio di Gand durante i Cento Giorni (Balzac a questo proposito cita Talleyrand, che parlò di cinquecento servitori che condivisero l’esilio della corte a Gand e cinquantamila che ne ritornarono) si è procurato la fiducia del monarca, che al secondo ritorno a Parigi lo ha ricompensato con incarichi prestigiosi e lautamente remunerati, favorendo anche la carriera dei tre figli maschi e le nozze delle due prime femmine del conte con ricchi partiti. Così, nel 1825 al buon conte de Fontaine, deputato e in procinto di divenire Pari di Francia, non resta altra preoccupazione che maritare Émilie, ormai ventenne, bella, beniamina di famiglia, arguta ma viziatissima ed ambiziosa, che rifiuta ostinatamente tutti i possibili pretendenti che il padre le propone organizzando continuamente feste e balli, trovandoli ridicoli per i loro difetti fisici o caratteriali, e vorrebbe concedere la sua mano solo al figlio di un Pari di Francia giovane, avvenente, dotato di sufficiente spirito e – ça va sans dire molto ricco, come rivela al disperato padre durante un colloquio sul suo futuro, dopo il quale viene dal genitore lasciata libera di scegliere il suo avvenire.
Continua a leggere “Nella “Comédie” prima della “Comédie” c’è già tutto Balzac”