Recensione di In terra ostile, di Philip K. Dick
Einaudi, Tascabili Vertigo, 1999
Philip K. Dick non ebbe una vita facile, né dal punto di vista personale né da quello letterario. I suoi romanzi di fantascienza furono pubblicati, lui vivente, su riviste e collane di genere, non permettendogli mai di raggiungere una accettabile sicurezza economica. Tra dipendenza dall’anfetamina, visioni mistiche, cinque matrimoni e periodi di assoluta povertà morì d’infarto nel 1982, mentre si stava girando il primo film tratto da uno dei suoi romanzi, il celeberrimo Blade runner di Ridley Scott.
Come spesso accade, fu solo dopo la sua morte, e in gran parte proprio grazie al successo di Blade runner, che la sua opera venne rivalutata, ed oggi Dick è considerato uno dei padri nobili della letteratura postmoderna nordamericana, un autore che – attraverso un personalissimo uso di distopie e ucronie – ha saputo raccontarci le angosce e le contraddizioni della società statunitense del dopoguerra, dagli anni ‘50 intrisi di ottimismo da un lato e di anticomunismo maccartista associato all’incubo nucleare dall’altro, alle utopie della grande rivolta giovanile degli anni ‘60 e 70, sino a giungere ai prodromi della controrivoluzione reaganiana i cui dogmi neoliberisti ci affliggono ancora oggi.
Personalmente, per quel poco che ho letto sinora della ponderosa produzione letteraria di Dick, dubito non poco di questa sua asserita grandezza assoluta. Certo, i suoi mondi sono in genere angoscianti e riflettono le logiche di una società disumanizzante ed alienante come quella del tardo capitalismo statunitense che si prepara ai fasti della globalizzazione, nelle sue distopie non è difficile ritrovare l’eco delle sue vicissitudini esistenziali, della sua vita di vittima costretta ai margini di quella società, ma ciò a mio avviso non basta per farne un autore di prima grandezza. I limiti della scrittura di Dick, la sua incapacità strutturale di utilizzare la parola scritta secondo modalità coerenti con gli oggetti delle sue narrazioni emergono ad ogni pagina, costringendolo spesso a tecnicismi che finiscono per far prevalere la cornice descrittiva rispetto all’essenza – che pure c’è – delle sue storie. Che differenza, in questo senso, rispetto ad un altro scrittore postmoderno al quale viene spesso associato: Thomas Pynchon. Se in qualche modo possiamo definire entrambi come scrittori del caos, non può sfuggire che il caos di Pynchon, a differenza di quello di Dick, è supportato da un coerente caos narrativo del tutto assente in Dick, il quale si trova costretto – sicuramente anche perché scriveva per vendere, per sopravvivere (lui stesso si definì sempre uno scrittore commerciale) – entro un orizzonte formale piuttosto ristretto. Continua a leggere “Il romanzo minore di un autore minore”