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Storia del Prof. Bergeret, vinto-vincitore, e della Terza Repubblica

IlManichinodiViminiRecensione de Il manichino di vimini, di Anatole France

Rizzoli, BUR, 1953

La Terza Repubblica è il periodo della storia francese che va dalla sconfitta nella guerra con la Prussia, nel 1871, allo scoppio della seconda guerra mondiale, con l’occupazione nazista del 1940.
Fu un periodo lungo e contraddittorio della storia di quella nazione: nata dalla sanguinosa repressione della Comune di Parigi, la Terza Repubblica, espressione della borghesia industriale e finanziaria di un paese almeno inizialmente sconfitto e isolato che però aspirava a ritornare ad essere una potenza continentale, pose le basi della laicità dello stato francese, attuò nel tempo importanti riforme sociali e civili ma fu anche teatro di grandi scandali, finanziari e non solo, da quello che coinvolse il generale Boulanger a quello di Panama a quello più noto e più divisivo, l’affaire Dreyfus, al caso Stavinsky. Fu durante la Terza repubblica che la Francia conobbe la crescita del movimento operaio, la prima guerra mondiale, la crisi del 1929 e l’esperienza del Fronte popolare. Culturalmente, questo lungo periodo fu caratterizzato dal fiorire di correnti e tendenze espressive che, accompagnando il contraddittorio sviluppo della società europea, fecero della Francia, e di Parigi in particolare, uno dei fulcri, forse il principale, della vita intellettuale mondiale.
Uno degli intellettuali che più di altri si identificano con i primi decenni della Terza Repubblica, essendone stato negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo il cantore critico, è senza dubbio Anatole France. Nato nel 1844 e morto nel 1924, fu insignito nel 1921 del Premio Nobel. Vivente, fu uno scrittore di grande successo, civilmente molto impegnato e politicamente schierato su posizioni di socialismo umanitario; polemico nei confronti del naturalismo di Zola, non esitò a difenderlo durante l’affare Dreyfus, prendendo una decisa posizione in favore della revisione del processo all’ufficiale ingiustamente accusato di tradimento. Sicuramente un punto pesante a suo favore è a mio avviso il fatto che la Chiesa mise all’indice nel 1920 tutte le sue opere.
Oggi France è uno scrittore poco considerato, forse anche perché paga ancora il dileggio cui fu sottoposto dalle avanguardie, che lo consideravano uno dei rappresentanti per eccellenza della vecchia letteratura di stampo classico e ottocentesco (un cadavere, dirà di lui Louis Aragon). Dico subito che, al contrario, Anatole France mi è apparso un autore importante, sicuramente da riscoprire e da approfondire. Egli è infatti secondo me, per quanto ho potuto trarre da questa prima lettura, uno dei più interessanti tra gli scrittori francesi del passaggio tra l’ottocento e il novecento, lontano come detto dal positivismo tardo ottocentesco ma anche dal decadentismo più o meno elitario che rappresentava l’autre coté dell’epoca. Pur se la sua struttura narrativa è saldamente ancorata al realismo ottocentesco, Il manichino di vimini è infatti carico di quelle inquietudini ed incertezze, di quelle capacità di caratterizzare personaggi attraverso i loro tratti psicologici, di quelle contraddizioni necessarie delle menti e delle situazioni che caratterizzeranno il novecento letterario.
Apparentemente la nostra editoria ci fornisce tutti gli strumenti per riscoprire questo autore: la lista di suoi titoli disponibili in libreria non è infatti particolarmente scarna, ma ciò che colpisce è che da essa mancano, da decenni ormai, alcune delle opere più importanti di France, come il romanzo storico Gli dei hanno sete o i quattro volumi che compongono la Storia contemporanea, forse il suo vero capolavoro. Così – al solito, potrei dire – non ho potuto far altro, per avere il piacere di contare nella mia libreria la Storia contemporanea, che ricorrere all’acquisto sul mercato dell’usato dei volumi che la compongono, pubblicati negli anni ‘50 dalla vecchia BUR, quella dei piccoli volumi grigi che ho già avuto modo di elogiare.
I quattro volumi andrebbero letti di seguito, componendo un affresco unitario ed essendo centrati sulle figure di alcuni personaggi le cui vicende si intrecciano nel tempo: a me è però capitato di comprare su di una bancarella il secondo volume del ciclo, e solo dopo averlo letto ed apprezzato mi sono messo alla ricerca degli altri. Così queste mie considerazioni saranno giocoforza parziali, essendo centrate su di un frammento dell’opera complessiva: tuttavia ritengo di aver potuto trarre da questa lettura alcuni elementi di analisi e giudizio utili per poter entrare nello spirito complessivo dell’opera.
Il manichino di vimini è il romanzo nel quale il principale protagonista della tetralogia, il professor Lucien Bergeret, conquista il centro della scena. Nel precedente L’olmo del viale, infatti, egli compare solo a metà di una vicenda centrata essenzialmente sugli intrighi di potere che caratterizzano gli esponenti della chiesa cattolica in una imprecisata città della provincia francese.
Bergeret, uomo di mezza età, è professore nella locale facoltà di lettere, e si occupa principalmente di Virgilio, sul quale da alcuni anni sta scrivendo un libro. Vive con la moglie che lo disprezza e lo tiranneggia e con una domestica drammaticamente pasticciona in un palazzo un tempo nobiliare ma ormai decaduto. Le due figlie sono momentaneamente da parenti. Tutto nella sua vita è modesto come il piccolo studio in cui passa gran parte delle sue giornate: disprezzato dal rettore e da molti colleghi proprio per la sua modestia, egli è conscio di non essere destinato a passare alla storia come grande letterato, tuttavia è soddisfatto di questa coscienza dei suoi limiti, come in generale della sua capacità di analizzare la sua personalità nonché quella delle persone che lo circondano e della realtà sociale in cui è immerso.
Quando una mattina, rientrato prima del previsto da una passeggiata in città, trova la moglie che sta consumando flagrante adulterio sul divano con il suo (di lui) allievo prediletto, reagisce isolandosi nella sua stanza: da quel momento ignorerà completamente la consorte, non parlandole più e chiudendole i rubinetti della borsa familiare. Pur continuando come sempre la sua vita sociale, fatta di discussioni nella piccola libreria Paillot, luogo d’incontro dell’ntelligencija locale, o durante passeggiate con amici e colleghi, in casa metterà lucidamente in atto una serie di piccole ma chirurgicamente devastanti vendette nei confronti della fedifraga, sino a che lei deciderà di andarsene.
Questa è l’esile trama del romanzo, o meglio di questo secondo episodio della Storia contemporanea, accanto alla quale trova posto anche l’accenno ad alcune storie parallele che sono sviluppate negli altri volumi del ciclo, come quelle connesse agli sviluppi delle lotte tra alcuni sacerdoti per la nomina a vescovo di Turcoing, oggetto del precedente L’olmo del viale, o quelle della famiglia del prefetto Worms – Clavelin, massone e reazionario.
Il valore del testo non sta però solo nelle storie che racconta, quanto nella capacità di France di far diventare queste storie, attraverso la precisa caratterizzazione dei personaggi in esse coinvolti e attraverso frequenti digressioni rese sotto forme di pensieri, dialoghi e conversazioni tra questi ultimi, paradigmatiche del clima sociale, politico e culturale della Francia dell’epoca. Così, l’imprecisata città di provincia teatro delle amare ma per molti versi tragicomiche vicende di M. Bergeret diviene il palcoscenico sul quale si muovono gli attori della società francese contemporanea all’autore, come del resto il titolo complessivo dell’opera indica. La cifra complessiva che France utilizza per comporre questo piccolo ma a suo modo potente affresco sociale è quella di una amara ironia, che serpeggia per tutto il testo ed è perfettamente funzionale a mettere alla berlina il clima di revanscismo e le divisioni sociali che caratterizzavano i primi decenni seguenti la disfatta di Sedan.
Ritengo che in questo senso un primo elemento da analizzare sia dato dall’ambientazione delle vicende narrate. Sappiamo tutti come, per certi versi ancora oggi, la Francia e Parigi siano due contesti profondamente differenziati dal punto di vista sociale e culturale: questa differenza era ancora più evidente ai tempi di Anatole France, nei quali la Francia rurale, profonda, era davvero provincia di un centro indiscusso quale era Parigi. Perché, allora, un parigino DOC come Anatole France, volendo comporre il quadro della società francese del suo tempo, criticandone a fondo la politica ed i costumi, sceglie di dargli come sfondo una piccola città di provincia e non la grande metropoli dove tutto si decide davvero, dove tutto accade? Vero è che anche Balzac ha ambientato alcuni degli episodi della sua Comédie humaine in provincia, ma in un quadro complessivo il cui fulcro rimaneva comunque la capitale.
Credo che a questo interrogativo si possa rispondere ipotizzando che France abbia voluto in questo modo rendere evidente come in quel particolare momento storico la società francese fosse caratterizzata da una tale dose di chiusura su sé stessa, di grettezza ed ipocrisia che solo per il tramite di un’ambientazione provinciale si potesse rappresentarla compiutamente. La piccola città senza nome è la Francia di quei decenni, piccola anche territorialmente, privata com’era dell’Alsazia e della Lorena, nella quale i sogni di grandeur si scontrano con la realtà di classi dominanti che, per preservare sé stesse e il proprio potere, guardano al passato senza saper immaginare un futuro diverso.
Lucien Bergeret, tra i vari personaggi che popolano la piccola città di provincia, è sicuramente quello più complesso e articolato, rispetto agli altri personaggi del libro, che a volte sembrano essere un po’ troppo didascalici. In lui si potrebbe dire che convivono due personalità, o meglio che la sua personalità sia la risultante di due diverse sfaccettature caratteriali.
Da un lato infatti lo percepiamo subito come un vinto dalla vita. Professore modesto, sta da anni scrivendo un libro sui termini marinari nell’opera di Virgilio, un’opera fuori dal tempo nella quale si compiace di riversare tutta la sua erudizione, essendo però pienamente conscio della sua inutilità, del fatto che ”è un lavoro imposto alla mia povertà da un libraio avido, associato a professori artificiosi che […] mi impongono dei divertimenti filologici alla moda del 1820”. La moglie, la cui volgarità è tratteggiata dall’autore con notevole capacità di introiezione psicologica e vis comica, non solo tradisce il marito (sapremo che l’avventura con lo studente Roux è la terza), ma lo disprezza profondamente da sempre sulla base di un presunto diverso censo: ”avrebbe cessato di essere una Pouilly, nipote del Pouilly del Dizionario se avesse ammesso una qualche eguaglianza tra lei e suo marito”. In casa ha sempre imposto la sua volontà e Bergeret ha sempre sopportato di buon grado questa tirannia muliebre, simboleggiata dal manichino di vimini del titolo, uno di quelli usati per provare i vestiti, che Amelia Bergeret nata Pouilly ha piazzato nel già angusto studio del marito. È Bergeret che porta in casa il giovane Roux, suo allievo prediletto che diviene l’amante della moglie: sino a quando non li coglie sul fatto non ha il minimo sospetto, salvo scoprire poi, dal moltiplicarsi di graffiti che lo raffigurano cornuto sui muri della città, che invece tutti sapevano. Bergeret è uno sconfitto, quindi, ma è anche un filosofo, capace come detto di analizzarsi e di analizzare gli altri e la società. La sua reazione alla scoperta del tradimento della moglie è infatti esemplare, e dimostra che egli è in grado di trasformarsi nel vero vincitore grazie alla sua capacità di capire. Non si lascia infatti andare a gesti violenti o avventati se non, subito dopo il fatto, lanciare nel cortile dalla finestra l’emblematico manichino di vimini: non affronta di petto la questione e la moglie, perché sa che da un confronto a viso aperto uscirebbe sconfitto dall’aggressività di quest’ultima. Se da un lato cerca di convincersi che ciò che è successo è poca cosa, perché in fondo l’uomo discende dagli scimpanzé e di questi ha conservato gli istinti, dall’altro mette in atto la più sottile strategia per liberarsi dalla moglie: toglierle ogni appiglio di esercizio del potere domestico su di lui, isolandola isolandosi, facendola sentire una non-persona perché l’oggetto del suo potere non la considera più tale, raggiungendo per questa via esattamente ciò che voleva: allontanarla da sé. È grazie alle sue capacità analitiche, che derivano direttamente dalla sua cultura, che Bergeret da vinto diviene vincitore, o meglio che in lui possono convivere queste due varianti esistenziali.
Le stesse capacità analitiche Bergeret le dimostra nei suoi rapporti con gli altri personaggi del libro, ciascuno dei quali rappresenta a suo modo un versante della società francese del tempo. Così egli discute di religione e dell’anticlericalismo del governo, di fisiognomica criminale e di pena di morte, della politica internazionale della Francia e della corruzione dei parlamentari, sostenendo spesso tesi apparentemente provocatorie ma che hanno l’obiettivo di smascherare l’ipocrisia e la falsità del pensiero corrente, oggi si direbbe delle opinioni mainstream su cui si basava l’organizzazione sociale dell’epoca. Come detto, alle volte si ha l’impressione di una certa dose di didascalismo, ma non mancano sicuramente episodi gustosi, come quello dell’incontro con il vagabondo Piedallodola, quello del prefetto ateo e frammassone che però manda segretamente la figlia in collegio dalle monache o quello del bibliotecario universitario emarginato, che per vendicarsi pubblica documenti sugli antichi scandali delle famiglie in vista della città.
Così Lucien Bergeret, modesto intellettuale di provincia, vinto ma vincitore, attraverso il racconto della sua vicenda personale e intellettuale non solo assurge a coscienza critica della piccola città in cui si riflette la Francia, ma indica al lettore un umanesimo che solo potrà, secondo France, salvare la nazione dagli squali che la dominano. All’orizzonte tuttavia si addensano minacciose le nubi dell’affaire Dreyfus, e siamo pronti a seguire il mite antieroe Bergeret nell’occhio di questo ciclone, nei successivi capitoli del ciclo.

Autore:

Bibliofilo accanito, ora felicemente pensionato

10 pensieri riguardo “Storia del Prof. Bergeret, vinto-vincitore, e della Terza Repubblica

  1. Molto bello ,denso ,interessante, questo tuo articolo dedicato a questo romanzo di Anatole France che ,come tu dici , andrebbe decisamente riscoperto In realtà nella lettura mi sono tornata in mente dove suggestioni i graffiti che descrivono vergere come cornuto Mi hanno fatto pensare alle incisioni di Medoro nella grotta in cui si consuma la sua passione per Angelica mentre in generale la figura di Lucien Bergeret mi ha richiamato alla mente la figura di Stoner il protagonista del romanzo di John Williams naturalmente mutatis mutandis Davvero molto interessante, ripeto, questo tuo post; spero di rileggere presto qualche altro tuo articolo in relazione a questo autore .Un caro saluto

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    1. Ciao Dragoval. Mentre scrivevo sul tuo articolo tu eri sul mio.
      Davvero avevo iniziato France con molta diffidenza, visto il giudizio su di lui di molti di quelli che sono venuti dopo di lui. Invece mi sono dovuto ricredere, anche se in parte è vero, come diceva Gide, che si capisce tutto subito. Non so quando leggerò gli altri capitoli della Storia contemporanea, avendoli appena comprati, ma forse per completezza farò un’eccezione al mio metodo cronologico di lettura.
      Ovviamente non conosco Stoner se non per la copertina, e quanto alle incisioni di Medoro c’è da dire che Bergeret non impazzisce, anzi: risolve tutto con estrema lucidità.
      A presto
      V.

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      1. Il che, chissà, probabilmente è ancnhe peggio- la repressione di emozioni e sentimenti in nome del decoro e del controllo è certamente una necessità sociale, ma anche uno dei grandi drammi della modernità (che appunto alimenta tutto il filone della letteratura borghese da metà Ottocento alla seconda metà del Novecento (dopo le cose si fanno decisamente più complicate, mi sembra).
        Un saluto ancora- e speriamo che davvero, qualche casa editrice si preoccupi di ristampare in modo organico le opere di questo grande autore.

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  2. Ciao Vittorio.
    Interessante come sempre il tuo articolo, anche per chi, come me, conosce pochissimo Anatole France. Il giovane Proust stravedeva per la sua prosa, pare che il personaggio di Bergotte sia ispirato principalmente a Anatole France. Che i surrealisti lo detestassero non c’è da stupirsi: già non potevano vedere il realismo autentico, figuriamoci quello fuori tempo massimo.
    Di suo ho letto soltanto, moltissimo tempo fa, “Il giglio rosso”, e conservo il ricordo di un’atmosfera vagamente dannunziana e piuttosto decadente. Mi meraviglia anche che la Chiesa abbia messo all’indice le sue opere. Ci sono dei brevi racconti suoi, come Le jongleur de Notre Dame, squisitamente e fiabescamente religiosi.
    Sono perfettamente d’accordo con te che quel periodo, lo chiamino pure Belle Époque, è uno dei più tristi della storia francese. (A proposito della “dose di chiusura su sé stessa”: la Francia lo è sempre stata, costitutivamente; ma in quel periodo si raggiungono apici di claustrofobia soffocante).
    Grazie dell’articolo e a presto

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    1. Buona domenica, Elena.
      Eh si: quanto a capacità di credere che il mondo finisca a Ventimiglia (o a Thionville) i francesi sono secondi solo agli statunitensi (ovviamente per loro finisce sui grandi laghi o dove comincia l’oceano) e forse ai britannici (“Tempesta sulla Manica: il continente isolato…”). I primi decenni dopo Sedan non riuscivano proprio ad elaborare il lutto (ci provarono subito massacrando i comunardi, poi incolpando di tutto gli ebrei, ma gggnente…)
      Il buon France era un ateo convinto, e nella Storia contemporanea fustiga non poco le lotte di potere ecclesiastiche. A quei tempi la chiesa non andava per il sottile su certe cose.
      Sapevo che per Bergotte MP si era ispirato a France: forse dovrò leggere altre cose di quest’ultimo per capire il perché. Certo è comunque un autore interessante, sospeso tra due secoli: ti uniresti all’appello che ho proposto a Dragoval per una riedizione delle sue opere principali?

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      1. Mi unisco, mi unisco… Come avrai capito, il periodo mi fa un po’ venire la rosolia, ma per la cultura questo e altro!
        (D’accordo sugli statunitensi, ma almeno gli Stati Uniti sono VASTI – e fino a tempi recenti erano all’inizio, non alla fine della loro storia.)

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