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Un volume paradigmatico della collana che dimenticò le sue radici

LaCittacheDimenticodiRespirareRecensione de La città che dimenticò di respirare, di Kenneth J. Harvey

Einaudi, Stile libero, 2006

Giunto ormai sulla soglia dei sessant’anni, ho fisiologicamente perso molte delle certezze della vita, acquisendo quel filo di cinismo e di scetticismo che è giusto avere alla mia età. Parallelamente ho però acquisito alcune altre certezze, distillate dall’esperienza di vita accumulata. In campo librario una di queste certezze è: MAI acquistare un libro che riporti, in fascetta o nella copertina, estratti di recensioni, tratti da quotidiani e riviste (in particolar modo se anglosassoni) oppure di altri scrittori, che descrivono l’opera come un capolavoro. Si può essere pressoché certi che quel libro sia, come si dice a Roma, una sòla: un buon libro non ha bisogno di attirare il lettore tramite ammiccanti giudizi preconfezionati, che in genere tra l’altro sono estratti ad hoc da critiche molto più articolate. Questa tecnica di marketing, banale e scontata, è però sempre più diffusa, a testimonianza da un lato della pochezza creativa delle case editrici e dall’altro della stupefacente propensione ad abboccare del pubblico; così le nostre librerie pullulano di scintillanti copertine sulle quali il Daily Telegraph, il Washington Post o il New Yorker ci informano che abbiamo per le mani la storia più affascinante degli ultimi cinquanta anni o l’opera del nuovo James Joyce.
Purtroppo mi rendo conto di aver maturato questa certezza solo negli ultimi anni: mi è capitato così di leggere un libro acquistato una dozzina di anni fa, quando non ero già più un ingenuo ragazzino alla scoperta del misterioso mondo della letteratura, ma evidentemente non avevo ancora elaborato appieno un adeguato codice di selezione dei miei acquisti librari. Questo libro è La città che dimenticò di respirare, dell’autore canadese Kenneth J. Harvey.
Al momento della sua riesumazione dalla mia biblioteca per iniziarne la lettura mi sono stupito non poco di averlo a suo tempo acquistato, non solo perché in copertina riporta in bella evidenza il seguente giudizio di J.M. Coetzee – Premio Nobel (da notare la necessità di specificare l’onorificenza massima): «Una storia misteriosa e avvincente, l’opera di un’immaginazione originale stregata e bizzarra» e nel risguardo analoghe marchette di Joseph O’Connor, The Daily Mail e Timothy Findley, ma anche e soprattutto perché il libro presentava una serie di altri indizi che avrebbero dovuto farmi riflettere. Innanzitutto La città che dimenticò di respirare è un romanzo contemporaneo, edito per la prima volta nel 2003, ed in genere io diffido istintivamente della letteratura contemporanea, che ritengo – come ho più volte affermato – una forma espressiva ormai decaduta e asservita quasi totalmente a logiche di mercato. Inoltre è edito da Einaudi nella collana Stile libero, che considero la quintessenza della decadenza della gloriosa casa editrice, una collana nata appunto dalla necessità di assecondare le tendenze di mercato, di far diventare, come dice il suo inquietante motto, libro tutto ciò che libro non è. Il mio è sicuramente un giudizio brutale, e sono cosciente che nella collana si possano reperire anche esempi di buona letteratura contemporanea, ma l’essenza del progetto che sta dietro Stile libero resta a mio avviso il mero adeguamento al mercato di una casa editrice che è stata un pezzo importante della cultura di questo Paese, e il passaggio da Vittorini, Pavese e Calvino a Repetti esemplifica da solo l’entità della caduta.
Infine la copertina, che non solo riporta come detto la perla di Coetzee, ma è costruita, come tutte quelle della collana, rinnegando l’eleganza formale che caratterizzava Einaudi, con il preciso intento, a mio avviso, di far dimenticare al potenziale acquirente una immagine editoriale che per i geni dell’industria culturale nell’età di Berlusconi era probabilmente troppo seriosa.
Nonostante questi pregiudizi mi sono messo comunque di buzzo buono a leggere questo romanzo, piuttosto corposo con le sue oltre cinquecento pagine, sperando che fossero smentiti e che le roboanti attestazioni della copertina contenessero un minimo di verità. Non è stato così.
La città che dimenticò di respirare è ambientato a Bareneed, una piccolissima località di pesca sull’isola di Terranova (Newfoundland), costa atlantica del Canada, luoghi di cui l’autore è originario.
La storia che narra è complessa e densa di personaggi, e non è facile riassumerla, sia perché il romanzo può essere classificato come un thriller venato di elementi horror, e quindi chi volesse leggerlo ha il diritto di non essere troppo informato in anticipo sugli sviluppi della trama, sia perché si tratta di una storia confusa, nella quale l’autore accatasta disordinatamente tantissimi elementi con l’unico fine, perlomeno secondo la mia interpretazione, di stupire il lettore e trarre una morale scontata e banale.
Prima di entrare nella vicenda mi sembra però giusto soffermarmi un po’ sulla struttura del romanzo, che rappresenta a mio avviso uno dei suoi pochi elementi di pregio. Come detto la storia, che pure ruota attorno alle vicende di due protagonisti, coinvolge diversi personaggi, e Harvey sceglie di raccontarci le loro vicende in parallelo. Nell’ambito di pochi, lunghi capitoli, ciascuno dedicato ad una intera giornata o a una sua porzione, delle sei in cui la vicenda si svolge, le azioni di ciascuno dei personaggi principali della storia sono raccontate in brevi sottocapitoli, separati da uno stacco tipografico, così che il lettore può seguire come detto in parallelo e da punti di vista diversi gli avvenimenti. Nulla di nuovo, per carità: è questa una tecnica molto utilizzata in letteratura e anche al cinema (si pensi ad esempio alla splendida opera prima di Stanley Kubrick, Rapina a mano armata o anche a Rashomon), ma è indubbio che una tale struttura narrativa, oltre ad essere perfettamente funzionale a creare la suspense necessaria in un thriller, generando automaticamente molti più punti di sospensione dell’azione di quanti ve ne sarebbero in una narrazione in continuo, permette al romanzo di acquistare una sua peculiare agilità facendo scorrere rapidamente le singole sequenze narrative.
Veniamo alla storia. Un giovedì d’estate giungono a Bareneed, per una breve vacanza, Joseph Blackwood, un guardapesca il cui padre era originario della zona ma che vive nella capitale dello Stato, Saint John’s, con la figlia di otto anni Robin. Scopriremo che Joseph si è separato da poco dalla moglie e madre di Robin, Kim, biologa marina. Incontrano subito una simpatica vecchietta del posto, Eileen Laracy, che viene immediatamente caratterizzata per due particolarità. La prima è che parla solo nel dialetto locale (particolare su cui tornerò), e la seconda è che vive, o meglio è vissuta sino alla mezza età, in compagnia degli spiriti dell’aldilà, che le tenevano compagnia nella sua solitudine. Da molti decenni, però, gli spiriti se ne sono andati. Scopriremo più avanti che Eileen in gioventù è stata fidanzata con il pescatore Uriah, che però poco prima del matrimonio è scomparso in mare insieme ad un amico.
Joseph e Robin hanno affittato casa Critch, su un’altura non lontana dal porto, e nelle vicinanze vi è una casa solare, in cui vive Claudia, giovane e sensuale artista che pochi anni prima ha perso, causa una tragedia in mare, il marito Reg e la figlia Jessica. Claudia sospetta che Reg, che negli ultimi tempi era divenuto violento, abbia fatto annegare Jessica e si sia suicidato.
Bareneed, la cui economia è fondata sulla pesca, è in crisi, perché da alcuni anni il governo ha vietato la pesca al merluzzo, che ormai nell’oceano scarseggia. C’è quindi molta disoccupazione tra gli abitanti.
Nell’unica digressione temporale della vicenda veniamo a sapere che otto giorni prima una signora del luogo, Donna Drover, pescatrice vedova e disoccupata, è andata a trovare il figlio Muss, anch’egli disoccupato, diventato negli ultimi tempi violento e con problemi respiratori. Donna da qualche tempo vede cose strane: mostri marini e una bambina livida e con i vestiti bagnati nelle vicinanze della casa di Claudia. Tornata a casa, Donna si sente male: è come se non riuscisse a respirare quando non lo fa coscientemente.
Anche Robin vede una bambina con gli abiti bagnati nella casa di Claudia, e diviene sua amica, nonostante il padre non la veda. La bambina è proprio la piccola Jessica, che racconta a Robin il suo essere uno spirito che non riesce a staccarsi completamente dalla terra. Frattanto anche un vecchio del posto, Loyd Fowler, accusa problemi respiratori: il dottor George Thompson, anziano e bonario, non riesce a classificare i sintomi dei suoi disturbi, e Loyd muore la sera stessa.
La mattina dopo Joseph e Robin vanno a pescare al molo: la bambina aggancia una grossa preda, che si rivela essere uno scazzone di uno strano colore rosso: dimenandosi nello spasimo della morte il pesce vomita, assieme ad una nauseabonda poltiglia, la testa di una bambola.
È solo l’inizio di una intricatissima vicenda, che vedrà intervenire molti altri personaggi: grossi pesci usciranno dal mare o dalle bocche di decine di persone morte anni o secoli prima i cui corpi il mare restituirà intatti, mentre le crisi respiratorie colpiranno moltissimi membri della comunità. Gli strani e terribili avvenimenti di Bareneed faranno intervenire l’esercito, che installerà sulle colline circostanti dei rifrattori di onde elettromagnetiche il cui accumulo verrà ritenuto la causa di ciò che sta accadendo, mentre i veggenti locali, la vecchissima Eileen Laracy e il suo amico Tommy Quilty (un signore che disegna il futuro e che a due anni era stato rapito dalle fate…), attribuiscono il tutto al fatto che gli spiriti non riescono più a vivere nella comunità da quando è arrivata la televisione.
Non mancheranno momenti altamente drammatici che riguarderanno soprattutto la piccola Robin, e seguiremo l’evoluzione del rapporto tra Joseph e la moglie da cui si è separato, sino al gran finale in cui Bareneed è minacciata da uno tsunami generato dall’accumulo di energia provocato, pare, dalle onde elettromagnetiche che l’esercito sta rifrangendo, “migliaia e migliaia di linee rosse incrociate e puntate in un fantastiliardo di direzioni diverse” (sic!) .
Credo che nulla possa dare un’idea del contenuto di questo romanzo come riportarne un passo, che considero uno dei vertici narrativi ed è altamente esemplificativo di cosa il lettore deve sopportare per oltre 500 pagine. A pagina 435 siamo in uno dei momenti più drammatici della storia: la vita di Joseph Blackwood è in grave pericolo ed egli si confronta con la visione del fantasma di Reg, il marito morto di Claudia.
“Claudia indicò suo marito, che sollevò i pesci e li strizzò. Dal primo schizzò un fiotto di fluorescenti uova ambrate, dal secondo un getto di sperma lattiginoso. I due schizzi si scontrarono a mezz’aria e formarono una persona minuta, una bambina. Jessica, con gli occhi rotondi e le labbra che si aprivano e chiudevano e riaprivano come per inspirare l’aria. La bambina si girò fino a darle la schiena. Reg, annuendo con un sogghigno, sollevò i pesci e, uno alla volta, se li infilò abilmente in gola.”
Insomma, un gran pateracchio sconclusionato, composto di una serie di luoghi comuni dell’horror (morti che ritornano, spiriti visti da pochi veggenti, il fantasma di un cane nero con tendenze assassine, molte altre cose) o da altri più caserecci, come i numerosi pesci che compaiono all’improvviso o vengono vomitati da fantasmi e che non riescono mai ad apparirci mostruosi, avendo spesso il solo potere di evocare la frittura. Il tutto per dirci, alla fine, che la causa degli avvenimenti era in realtà la perdita di identità della comunità, il fatto che nessuno si raccontava più storie per l’influsso malefico della televisione. Già, perché in questi casi è necessario che ci sia una morale, altrimenti perché costruire tutto questo castello di terrore a buon mercato in salsa alieutica? E la morale è per il buon Harvey il ritorno ad un’epoca pretelevisiva, anzi addirittura preelettrica.
Ma non è finita qui, perché alla insipienza dell’opera originale la traduzione italiana, affidata ad Alessandra Montrucchio, aggiunge una perla nera tutta sua. La Montrucchio si è trovata infatti di fronte ad un problema oggettivamente di difficile soluzione: come rendere il dialetto di Terranova parlato strettamente da Eileen Laracy, da Tommy Quilty e da altri personaggi locali? La traduttrice nella Nota posposta al romanzo, informa che ”chi lo parla pronuncia in fretta le parole e tende a mangiarsele, inverte i posti canonici delle acca aspirate e ha un accento simile all’irlandese. Si tratta però di peculiarità orali, impossibili da riprodurre nello scritto”. E già qui si potrebbe obiettare che probabilmente invece l’autore c’è riuscito, visto che è in quel dialetto che fa parlare alcuni personaggi. Cosa fa quindi la scaltra Montrucchio di fronte a cotanta difficoltà? Fa esprimere Eileen, Tommy e gli altri… in abruzzese! Per capire meglio, riporto la prima frase pronunciata da Eileen, all’inizio del romanzo: ”Sciò, mosche, nen rompe’ […] U sî na fate de li lillà cu la maschera?” Da questa scelta risultano due sciagurate conseguenze: la prima, ovvia, è di togliere ogni credibilità ai discorsi di questi personaggi, perché francamente la distonia tra l’ambientazione anglosassone in cui il lettore è immerso e il passaggio al dialetto abruzzese è micidiale. La seconda è di non avere risolto il problema da cui ha preso le mosse, perché comunque ha dovuto rendere in forma scritta, esattamente come ha fatto l’autore, le “peculiarità orali, impossibili da riprodurre nello scritto”. Possibile che non abbia potuto trovare una forma di italiano diversamente costruito, come spesso si fa in questo caso?
Nella Nota del traduttore già citata Montrucchio giustifica dottamente questa sua scelta: è proprio il caso di dire che excusatio non petita… .
Nella sua marchetta nel risguardo di copertina, il compianto Timothy Findley dice a proposito di Kenneth J. Harvey: “Una delle voci più importanti per il futuro della letteratura canadese”. Per il bene culturale di quel paese auspico che nel frattempo siano nate voci più importanti, e personalmente mi auguro anche di essere stato in seguito più selettivo nei miei acquisti.
Ma questa è Einaudi stile libero, bellezza, la collana della rinascita, quella che fa diventare libro tutto ciò che libro non è.

Autore:

Bibliofilo accanito, ora felicemente pensionato

4 pensieri riguardo “Un volume paradigmatico della collana che dimenticò le sue radici

  1. Purtroppo vero ciò che dici; sul tema generale, anche volendo tralasciare lo specifico di questo romanzo, in particolare a proposito della collana Einaudi ma non solo, di una editoria che, oggi, non si perita, in nome di una commercializzazione di grandi dimensioni, a non distinguere, come dici bene, tra un libro e “ciò che libro non è.”
    Ed è vero che le fascette con cui il libro viene lanciato sono un indicatore che tragicamente dice come non solo le case editrici non marchino il proprio territorio ma come non lo facciano neppure autori che dovrebbero, di tale distinzione, letteralmente vivere. Autori che, consapevolmente, si autodenunciano.

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  2. Maledette fascette… Ormai le evito come la peste. I classici sono una sicurezza, mentre quando si guarda ai contemporanei, almeno secondo me, bisogna procedere con i piedi di piombo, aspettando che un buon numero di recensioni (di persone fidate) permettano di compiere scelte più consapevoli.

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