Recensione de Il soccombente, di Thomas Bernhard
Adelphi, Gli Adelphi, 2004
Concludendo le mie riflessioni su L’imitatore di voci, prima opera da me letta di Thomas Bernhard, mi rallegravo che l’autore avesse deciso che scrivere avesse ancora un senso, nonostante la coscienza e l’esaltazione del suo elitario isolamento come unica risposta possibile alla stupidità del mondo – il che a rigori avrebbe dovuto portarlo alla decisione contraria – regalandoci così una piccola chicca letteraria. Questa mia affermazione contrasta non poco con una delle mie convinzioni di fondo, secondo la quale a partire dagli anni ‘30 del secolo scorso le vicende storiche e l’evoluzione della società hanno privato la letteratura ed in particolare la prosa (forse per la poesia il discorso può essere considerato più complesso) della sua storica funzione di manifestazione artistica in grado di aiutarci ad interpretare e a capire il mondo in cui viviamo, relegandola progressivamente, seguendo una tendenza che negli ultimi decenni si è definitivamente completata, a strumento elitario di un’industria culturale il cui fine ultimo – accanto a quello di produrre profitti – è esattamente l’opposto, cioè non farci riflettere sul mondo in cui viviamo e sulle sue catastrofiche contraddizioni.
Dopo avere terminato la lettura de Il soccombente, una delle opere più note e più tipiche quanto a struttura dell’autore austriaco, almeno stando a quanto su di lui ho reperito in rete, mi trovo a riconciliarmi (anche se devo dire purtroppo) con questa mia opinione, perché a mio avviso questa opera rappresenta quasi emblematicamente l’inutilità dello scrivere nel tardo XX secolo.
So che con questa affermazione apodittica potrei attirarmi la scomunica dei bernhardisti che dovessero accidentalmente incappare in queste mie righe, e siccome sono conscio delle funeste conseguenze cui potrei andare incontro (i bernhardisti sono una vera e propria setta intollerante, che divide il mondo in due: coloro che amano e coloro che odiano Bernhard, e per i secondi non prevedono possibilità di remissione alcuna) cercherò di spiegarmi meglio ed anche in qualche modo di giustificarmi ai loro occhi.
Innanzitutto impetro la loro indulgenza tenuto debito conto della mia ignoranza e parzialità: due sono le opere del Maestro che sino ad ora ho letto, quindi il mio giudizio a queste due opere è relativo, non certo alla di Lui totale produzione, parte della quale mi riservo di assorbire nel prossimo futuro sperando mi riservi piacevoli sorprese e ulteriori spunti di riflessione.
Nel merito de Il soccombente, non dico che non dovesse essere scritto o che sia un’opera mediocre, affermo solamente che testimonia, tanto più in quanto scritta da un autore importante e certo non superficiale come Thomas Bernhard, quanto la letteratura sia divenuta in generale uno strumento culturale obsoleto, sia ormai come una sorta di grande chiave in ferro – di quelle per intenderci con cui si aprivano una volta i grandi bauli dove spesso si trovavano immensi tesori – con la quale tentare di aprire la porta blindata di un appartamento. Questo ovviamente vale qualora si pensi che la letteratura debba servire ad aprire qualcosa che muta e si evolve nel tempo: se invece si ritiene che essa sia deputata ad accostarci a grandi misteri della vita e dell’animo umano che si ripetono nei secoli sempre uguali a loro stessi, perché connaturati in qualche modo ad un nostro essere di fondo immutabile e scandagliabile nella sua essenza solo da poche anime elette, allora Il soccombente è sicuramente un’opera importante, forse imprescindibile.
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