Recensione de L’imitatore di voci, di Thomas Bernhard
Adelphi, Piccola Biblioteca, 1999
Ho iniziato la mia conoscenza di Thomas Bernhard, autore cardine del secondo novecento europeo, con un’opera in qualche modo anomala dello scrittore austriaco, almeno nella forma.
L’imitatore di voci, uscito nel 1978, è infatti strutturato molto diversamente dal resto della produzione letteraria e drammaturgica di Bernhard: non vi sono i lunghi monologhi con il quale il narratore di rivolge all’ascoltatore, le pagine fitte che si susseguono le une alle altre ripetendo ossessivamente concetti o piccoli, apparentemente insignificanti, avvenimenti: questo volumetto edito da Adelphi è formato da 104 brevissimi testi, mai più lunghi di due pagine, spesso meno di una, che potremo definire racconti ma che in realtà sembrano usciti dalle pagine di cronaca di un giornale di provincia, dai verbali di una stazione di polizia o dalla narrazione distaccata di personaggi anonimi coinvolti nei fatti narrati, i quali fatti riguardano nella maggior parte dei casi di omicidi, di suicidi e piccole storie di violenza e stupidità quotidiana.
Se però la forma del contenitore è diversa rispetto a quella che caratterizza le opere maggiori dell’autore austriaco, il suo contenuto è invece il medesimo: infatti da questi piccoli racconti emerge tutto il corrosivo nichilismo, tutta la feroce critica della società e della cultura austriaca ed europea in genere, tutta l’amara disillusione sulle sorti dell’umanità che forma il nucleo stesso della letteratura di Bernhard.
La biografia di Thomas Bernhard ci fornisce immediatamente due dati estremamente significativi, direi emblematici: egli nasce infatti nel 1931 e muore nel 1989: la sua vicenda umana è quindi racchiusa quasi perfettamente entro due momenti fondamentali della storia del secolo breve: l’ascesa del nazismo in Germania e la caduta del muro di Berlino, la fine della cosiddetta guerra fredda. L’Austria, il piccolo stato con una capitale troppo grande, nato dalla dissoluzione mai completamente assorbita di un impero multinazionale che ancora oggi viene folcloristicamente celebrato con malcelata e acritica nostalgia, quasi fosse davvero esistita un’Austria felix dove tutti ballavano i valzer degli Strauss sotto l’occhio benevolo dell’imperatore, è senza dubbio, dopo la Germania, il paese che più di ogni altro in Europa ha visto condizionata la sua stessa essenza dai tragici avvenimenti che si sono susseguiti a partire dagli anni ‘30: dall’anschluss alla guerra, dalla decennale occupazione alleata al ritorno ad una normalità neutrale e socialdemocratica in funzione di antemurale del mondo occidentale in cambio della possibilità di non fare davvero i conti con il proprio passato – cosa che l’accomuna all’ingombrante vicino. Vista da questa prospettiva l’Austria del dopoguerra può essere considerato il paradigma delle contraddizioni e dell’ipocrisia politica seguita all’annientamento del nazismo. Ed è questa Austria il bersaglio preferito della critica che caratterizza l’opera di Bernhard, cui ne L’imitatore di voci si affiancano altri bersagli, quali la stupidità del giornalismo e l’ottusità dell’organizzazione sociale in genere.
Il titolo della raccolta è quello di uno dei racconti, il secondo. Esso narra di un imitatore che, dopo aver imitato con successo le voci di personaggi più o meno celebri, viene invitato dal pubblico ad imitare la propria voce, non riuscendovi. Non è un caso, a mio avviso, che l’autore abbia deciso di mettere in evidenza questo racconto, perché di fatto esso rappresenta una sorta di manifesto della raccolta, attraverso il quale Bernhard ci consegna tutto il suo scetticismo (il termine è sicuramente troppo blando, ma non ne trovo altri) nei confronti del ruolo ufficiale dell’arte e dell’intellettuale in quanto rispettivamente forma e agente di comunicazione sociale. Dell’imitatore di voci Bernhard si premura di farci sapere – con uno dei suoi tipici incisi solo in apparenza pedanti ed inessenziali – che ”era originario di Oxford in Inghilterra ma aveva frequentato le scuole a Landshut e in origine aveva fatto l’armaiolo a Berchtesgaden”: egli sottolinea quindi sarcasticamente la vasta esperienza del mondo del suo personaggio, il suo essere in qualche modo un animale sociale: fosse stato italiano avremmo potuto dire che aveva fatto il militare a Cuneo. Da questa sua esperienza trae le voci che si limita ad imitare per il piacere del pubblico: quando però gli viene chiesto essere sé stesso, di imitare la propria voce, egli dichiara la propria incapacità. Lampante, a mio avviso, la satira nei confronti di una precisa tipologia di intellettuale che si stava facendo sempre più largo nella società occidentale di fine ‘900 e che oggi è divenuta pressoché l’unica essitente. A questo racconto si contrappone in qualche modo, molte pagine oltre, A Roma, dedicato all’amica Ingeborg Bachmann, morta nella capitale italiana in tragiche circostanze. Bachmann, per Bernhard, ”era un essere perennemente in fuga, e nelle persone aveva sempre visto ciò che esse sono in realtà, quella massa ottusa, stupida e brutale con cui effettivamente non si può far altro che rompere i ponti” e più oltre: ”a distruggerla è stato logicamente solo il mondo che la circondava e, in sostanza, la volgarità del suo paese d’origine, dalla quale era stata perseguitata passo dopo passo anche all’estero, com’è accaduto a tanti altri.” L’intellettuale vero, quindi, colui che non si limita a imitare le voci degli altri, è destinato ad essere isolato e perseguitato perché denuncia l’ottusità e la stupidità della massa e del potere, e la coscienza di questo isolamento può portarlo alla distruzione.
L’inutilità dell’intellettuale nella società contemporanea, il suo asservimento al potere, pagato con il distacco dalla realtà, le inutili dispute filosofiche portate avanti solo per soddisfare il proprio ego sono temi portanti anche di altri racconti, a partire significativamente dal primo, Hamsun, nel quale uno degli scrittori più amati da Bernhard ci viene presentato come un vecchio in un ospizio, sul cui cadavere infine viene steso un emblematico lenzuolo. Degno di attenzione in questo senso è anche Concerto di grande successo, nel quale un complesso di musica da camera ottiene i più scroscianti applausi da un pubblico di sordomuti. L’intoccabilità dei dogmi della cultura ufficiale è magistralmente condensata in Affermazione, nel quale un uomo di Augsburg viene internato in manicomio per aver osato affermare che le ultime parile di Goethe non furono mehr licht, come affermato nella vulgata volta alla beatificazione del poeta.
Emerge nel dolente omaggio a Bachmann il disprezzo di Bernhard per l’Austria – peraltro abbondantemente ricambiato da accuse di antipatriottismo e da una sostanziale emarginazione – che infatti fa da sfondo alla maggior parte delle storie di tragica od ordinaria stupidità che compongono la raccolta. In uno degli ultimi racconti, Genio, Vienna viene etichettata come ”città nella quale la brutalità e l’impudenza nei confronti dei pensatori e degli artisti è sempre stata immensa, e che sicuramente può essere definita il più grande cimitero delle fantasie e delle idee esistente al mondo”. Più che nei pochi racconti in cui l’autore lancia direttamente i suoi implacabili strali verso la società austriaca è però, a mio avviso, in quelli nei quali Bernhard si limita ad esporre fatti, come detto spesso usando un tono ironicamente giornalistico, che l’ottusità del mondo che ci circonda emerge in tutta la sua tragica forza. Così ci troviamo di fronte ad autorità che a fronte della scomparsa di alcune spedizioni speleologiche in una grotta murano ancor prima di natale l’ingresso della caverna, a padri di famiglia che uccidono quattro dei sei figli ritenendoli troppi o che uccidono la moglie perché ha salvato da un incendio il figlio sbagliato, oppure ancora ad un operaio che uccide l’amico di una vita a cui era stato concesso un prestito a lui negato, a turisti inglesi che gettano in un precipizio la loro guida alpina perché delusi dal panorama trovato su una cima, a pompieri che ritraggono il telo di salvataggio nel momento in cui il suicida si getta dal cornicione.
Due sono gli elementi formali che in genere caratterizzano questi racconti: la puntuale localizzazione geografica dei luoghi dove si svolge quanto narrato e il fatto che molto spesso il narratore è un personaggio collettivo, un noi non altrimenti specificato.
La puntuale, pedantesca localizzazione di molti racconti costituisce uno dei tratti essenziali del loro contenuto satirico: piccoli villaggi e cittadine della Stiria, della Carinzia o del Tirolo, che a volte il lettore conosce quali luoghi dell’idillio alpino, con le case dai terrazzi lignei rigorosamente rigurgitanti di gerani, divengono teatro di efferate ma ordinarie crudeltà, di omicidi e suicidi senza apparente senso. Bernhard, attraverso la sua rigorosa localizzazione di molti episodi, colpisce al cuore l’Austria, l’immaginario di quel paese che tutti più o meno ci siamo fatti, conferendo nel contempo a tali episodi un sapore cronachistico che mira a renderli, oltre che reali, anche connaturati alla terra che li ha resi possibili.
Spesso, come detto, questi episodi sono riferiti da un narratore che è parte di un indefinito noi che vi ha preso in qualche modo parte. La domanda che sorge spontanea leggendo è: chi sono questi noi e cosa rappresentano? Lasciando a ciascuno la propria interpretazione, ritengo si possa sostenere la tesi che l’uso della persona plurale stia per l’insieme indistinto del pubblico che a volte recepisce passivamente quanto narrato, considerandolo del tutto normale e non percependone l’aberrazione, altre volte ne determina, con la sua crudele stupidità, l’andamento. Esemplare a questo proposito è Pregiudizio, nel quale il noi è una famigliola che, causa involontaria della morte di un uomo, mantiene il segreto su ciò che è successo e compiange sentitamente la vedova.
Alcuni racconti non sono ambientati in Austria: Polonia, Portogallo, Egitto, Inghilterra, Belgio ed anche Italia fanno da sfondo ad altre storie grottesche e tragiche. Tra quelle Italiane merita un accenno il brevissimo racconto dei due sindaci di Pisa e Venezia che, per stupire i turisti delle due città, avevano deciso di trasportare la torre di Pisa a Venezia e il campanile di San Marco a Pisa, salvo essere internati in manicomio dalle autorità italiane che ”erano riuscite a trattare la cosa con la più assoluta riservatezza.” In poche righe Bernhard ci mostra come nella società contemporanea la cultura e la bellezza siano considerate unicamente fattori di attrazione ed abbiano perso ogni significato rispetto ai luoghi che le esprimono.
Altri due racconti che mi hanno particolarmente colpito, perché sono tra gli unici nei quali lo sguardo di Bernhard si rivolge direttamente alla politica, sono Interpellanza al consiglio regionale e Smentita, entrambi in qualche modo dedicati al fallimento, se non al tradimento, della sinistra e dei suoi ideali. Nel primo, constatando che tra gli studenti suicidi a Salisburgo oltre ai tradizionali borghesi si contano anche figli di operai, un deputato socialista conclude che la classe operaia ha ormai raggiunto la borghesia. Il secondo narra di un cordiale incontro ad un ricevimento tra l’ex Re d’Italia Umberto II e il leader comunista portoghese Alvaro Cunhal. In qualche modo politici e critici nei confronti dei regimi dell’Europa orientale del tempo sono alcuni racconti ambientati in Polonia e Romania.
Meritano infine un breve cenno alcuni racconti dedicati al teatro, nei quali il drammaturgo Bernhard si scaglia contro le interpretazioni che tradiscono l’intento dell’autore, sino ad immaginare che uno di questi – presumibilmente lui – spari a raffica con una mitragliatrice sul pubblico.
Leggendo questi racconti, ed in particolare quelli dedicati all’Austria, che ne costituiscono il nucleo centrale, viene quasi spontaneo accostare Bernhard all’altro grande fustigatore della società austriaca, che lo precedette di un paio di generazioni: Karl Kraus. Entrambi drammaturghi e giornalisti, entrambi oggetto di polemiche se non di ostracismo, hanno rappresentato la coscienza critica del Paese l’uno durante i passaggi più drammatici della sua storia, l’altro nel periodo di una apparentemente ritrovata normalità basata sul benessere materiale garantito dalla società dei consumi. E proprio questa diversità di epoche sta a mio avviso alla base delle fondamentali differenze che esistono tra questi due intellettuali, al di là delle citate analogie. Kraus, figlio di un’epoca nella quale accanto alle grandi tragedie erano comunque vivi grandi ideali e speranze, è intellettuale lucidamente inserito nel dibattito intellettuale e culturale del tempo: la sua Fackel ospita il pensiero e le opere di moltissimi altri intellettuali, la sua polemica contro l’estetismo nazionale del gruppo Jung Wien e il gusto per l’ornamento della Secession, la spietatezza e la concretezza con cui denuncia le vere cause e le conseguenze della grande guerra prima e dell’ascesa del nazismo poi sono in questo senso esemplari. Anche Bernhard è figlio del suo tempo, che però è il tempo in cui l’intellettuale ha perso o sta perdendo ogni ruolo veramente sociale a vantaggio di una mera funzione di mediatore del consenso tra il consumatore di cultura e il mercato, un tempo in cui non ci sono speranze di cambiamento vero, in cui anche chi tali speranze aveva incarnato si è ormai adagiato nelle molli spire del sistema oppure ha generato sistemi altrettanto basati sulla stupidità collettiva. La risposta di Bernhard a questo stato di cose, indubbiamente lucidamente percepito quanto a direzione generale nonostante gli scossoni dei movimenti di massa, è l’isolamento elitario, il disprezzo per tutto e per tutti tranne per i pochi che ritiene al suo livello intellettuale. È una risposta disperata ad una situazione disperata, tanto più evidente in un paese di frontiera come l’Austria.
Resta comunque inespressa una domanda, che mi ero già posto al tempo della lettura di un intellettuale che in quegli stessi anni perveniva ad un analogo isolamento elitario partendo da un approccio filosofico, Emil Cioran: se questa è la società, se questo è il mondo, se nulla è possibile per cambiarlo, allora che senso ha scrivere? Fortunatamente per noi Bernhard ha risposto che comunque scrivere ha senso, regalandoci 104 piccoli capolavori da leggere tra amarissimi sorrisi e rabbia impotente.
Recensione interessante e istruttiva di un testo che purtroppo non ho letto. Però le critiche feroci di Bernhard all’Austria, come le sue critiche feroci a un sacco di altre cose, secondo me non sono da prendere proprio alla lettera. Sono troppo esagerate e ripetitive, e alla fine stuferebbero se fossero da prendere alla lettera. Oltretutto Bernhard è un maestro della palinodia e del rovesciamento. Fermo restando che aborriva la stupidità e la ristrettezza di orizzonti, c’è anche molto, nelle sue tirate contro questo e contro quello, della scelta stilistica. Una scelta stilistica che gli fornisce uno strumento eccellente per dissezionare le aporie del mondo, ma dalla quale sarebbe sbagliato, credo, dedurre un pessimismo esistenziale o storico. Credo che nonostante tutti i suoi problemi (in primis i problemi di salute) Bernhard non stesse affatto male al mondo. Lo dice anche, in un’intervista, che è ovvio che ci sono un sacco di cose piacevoli nella vita; solo che lui non parla di quelle – ha scelto di non parlare di quelle.
Grazie della bella recensione e a presto.
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Ciao Elena.
Probabilmente è come dici tu: non ho sufficiente conoscenza dell’autore per scandagliarne l’animo, e spesso è difficile capire se uno ci è o ci fa (ma per quanto mi riguarda un autore è ciò che scrive… vedi i citatissimi [tra noi] Balzac e Hamsun).
Certo da questi raccontini, peraltro godibilissimi se piace la cattiveria, emerge a mio avviso non tanto un pessimismo, quanto un vero e proprio isolamento elitario, che a mio avviso è molto secondo novecento, perché riflette l’esito (uno degli esiti) della crisi della crisi.
A presto
V.
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D’accordo sull’isolamento elitario.
(Però, a pensarci adesso, quanto era bella la crisi della crisi… Almeno c’era la percezione. Adesso mi sembra che l’individuo non percepisca più nemmeno se stesso, e le élites, per sempre scomparse, appartengono allo stesso passato polveroso dei diademi e delle piume di struzzo della bella époque).
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Le élites esistono ancora: sono quelle impegnate a portarci via quote crescenti di reddito e servizi.
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Il concetto di élite implica anche una cultura, che a questi fa totalmente difetto. Non so come si potrebbero chiamare. Che ne dici di “ladri”?
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