Recensione de La dodicesima notte, ovvero Quel che volete, di William Shakespeare
Rizzoli, Superbur classici, 2001
Esistono libri che sembrano fatti apposta per non permettere al lettore di scavare in profondità un testo, di addentrarsi nei suoi elementi strutturali, di comprendere cosa lo scrittore intendeva trasmettere quando scriveva.
Un esempio lampante di ciò è questo volume pubblicato da Rizzoli non moltissimi anni fa, nel quale ho avuto la sfortuna di leggere La dodicesima notte di William Shakespeare, dove tutto è fatto non solo per rendere arduo al lettore medio formarsi una qualsivoglia idea critica del testo che legge, ma anche per togliergli buona parte del gusto della lettura.
Grande imputata è ovviamente la traduzione, pure a suo tempo affidata dall’editore ad un riconosciuto specialista come Gabriele Baldini, che ha curato anche la breve nota introduttiva. Potrà sembrare inopportuno criticare uno studioso di tale importanza, tra l’altro scomparso da moltissimo tempo, ma visto che sono stato vittima delle sue scelte e che ancora oggi in libreria si trova questa versione della commedia scespiriana, mi par giusto avvisare il potenziale lettore di quelli che ritengo difetti esiziali del volume.
Innanzitutto Baldini compie l’infelice scelta radicale di nascondere la fondamentale differenza strutturale esistente tra le scene delle quali sono protagonisti i nobili e quelle in cui agiscono i personaggi popolareschi, nei quali come si vedrà sono compresi di buon diritto, oltre alla servitù, anche alcuni titolati. Shakespeare, infatti, usa due lingue diverse per differenziarle: i nobili si esprimono in versi – l’autore non a caso sceglie il più classico dei versi inglesi del tempo, il pentametro giambico – mentre gli altri si esprimono in una prosa sincopata, piena di espressioni gergali e doppi sensi. Tutto ciò nella traduzione di Baldini si perde sotto un velo di uniformità linguistica da cui la vivacità, le colorite espressioni e le battute spesso salaci dei personaggi emergono a stento. Impiegando praticamente sempre lo stesso linguaggio, che suona enfatico in quanto raffinatamente antichizzato, il traduttore appiattisce verso l’alto la commedia, falsandone il senso complessivo. L’originale dicotomia espressiva dell’opera, infatti, lungi dall’essere uno sfizio artistico, risponde a precise necessità comunicative dell’autore, e dice molto sul contesto sociale e politico nella quale l’opera fu scritta.
All’inizio del XVII secolo (la commedia è del 1600-1601) la nascente borghesia inglese aveva trovato nel puritanesimo – ed in particolare nel suo accento sulla predestinazione, l’individualità e l’umile intraprendenza – la base ideologico-religiosa per la sua affermazione, come avrebbe dimostrato di lì a pochi decenni la rivoluzione cromwelliana. Un corollario del puritanesimo era l’avversione alle feste e agli spettacoli teatrali: negli ultimi anni del regno elisabettiano vi furono infatti frequenti divieti di fare teatro nella città di Londra.
Data la diffusa ostilità borghese per il teatro, Shakespeare poteva quindi in quegli anni contare solo sulle altre due classi per poter rappresentare le sue opere: il popolo, che affollava i teatri del circondario della metropoli, e la nobiltà, che aveva il potere di autorizzare le rappresentazioni e poteva riservarle a visioni private.
Ecco perciò il bardo concepire un’opera bifronte, con parti in grado di incontrare il gusto raffinato della nobiltà e parti decisamente più adatte ad un pubblico popolare, ed anche probabilmente in grado di far percepire a ciascuno dei due diversi pubblici le parti nelle quali non si riconoscevano come satira di un mondo distante da loro.
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