Recensione di Quando cala la nebbia rossa, di Derek Raymond
Meridiano zero, Meridianonero, 2007
E così eccomi giunto al mio ultimo incontro con Derek Raymond. Quando cala la nebbia rossa è infatti l’ultima opera di questo autore che occhieggia dagli scaffali della mia libreria, e per una strana coincidenza è anche l’ultimo romanzo pubblicato dall’autore: uscì infatti nel 1994, anno della morte di Raymond.
Anche se qua e là nella storia è citata la Factory, questo romanzo non può essere pienamente considerato come facente parte della serie centrata sulla Sezione delitti irrisolti di Poland Street, anche perché la figura dell’anonimo Sergente incaricato di investigare sui delitti scomodi nel romanzo non compare.
Protagonista ne è infatti Gust, un delinquente della periferia londinese, che si trova invischiato in una storia più grande di lui. Gust è da poco tempo in libertà vigilata, dopo avere scontato dieci dei quindici anni che gli erano stati comminati per una rapina nella quale c’era scappato il morto. Appena uscito di prigione, Gust ha partecipato, con alcuni colleghi, ad un altro colpo, piuttosto anomalo: il furto su commissione di una gran quantità di passaporti nuovi, ciascuno dei quali sul mercato nero ha un valore notevole. Qualcosa però è andato storto: sembra che i passaporti non siano mai arrivati al destinatario, e Gust, che per il colpo è stato lautamente pagato, si trova ad essere inseguito dagli scagnozzi di chi aveva commissionato il furto, essendo sospettato di aver fatto il doppio gioco consegnando il bottino ad altri. Nella vicenda sono in effetti coinvolti i servizi segreti inglesi, impegnati a sventare un pericoloso traffico di ordigni nucleari in uscita dall’ex URSS. Per ovvii motivi non aggiungo altro sulla trama, limitandomi a sottolineare la peculiare struttura del romanzo, le cui vicende – a parte i primi due capitoli – si svolgono nell’arco di pochissimi giorni, durante i quali il lettore, oltre a seguire Gust, viene a poco a poco a conoscenza – per mezzo dei personaggi che Gust incontra, di monologhi interiori o dialoghi del protagonista oppure nei capitoli in cui compaiono gli agenti dei servizi segreti – degli antefatti che lo hanno portato ad essere di fatto un animale braccato.
In questo caso, quindi, il romanzo è centrato sulla figura del colpevole, e ciò comporta notevoli differenze rispetto ai precedenti noir della serie della Factory da me letti. Da un punto di vista formale il segno distintivo consiste infatti all’abbandono della narrazione in prima persona da parte del Sergente per il più tradizionale narratore terzo, rendendo così possibile intercalare alle vicende di Gust quelle degli agenti dei servizi segreti che in qualche misura lo manovrano.
Per la verità anche nei tre noir della Factory da me letti la lente dello scrittore non era univocamente centrata sulla figura del poliziotto, anzi. Nel primo romanzo della serie, E morì ad occhi aperti, l’attenzione primaria dell’autore è per la vittima, che come ho avuto modo di dire presenta tra l’altro una forte connotazione autobiografica, ed in seconda battuta sui suoi carnefici. L’investigatore ha di fatto in questo romanzo solo un ruolo maieutico, di estrazione della verità tramite l’indagine della personalità degli altri personaggi, mentre la sua personalità rimane incerta, senza che possa essere più di tanto indagata dal lettore.
In Aprile è il più crudele dei mesi e – per quanto ne ricordi – ne Il mio nome era Dora Suarez, secondo e quarto dei romanzi della serie, il lettore invece penetra a fondo nella tormentata vicenda umana e professionale del Sergente, e si può dire che sia proprio questo suo drammatico vissuto che gli fa comprendere le dinamiche e la logica del reato su cui sta indagando, e di conseguenza individuare l’assassino. Il protagonista principale è lui, mentre vittime e colpevoli sono in qualche modo solo riflessi del suo tormento interiore.
Nel suo ultimo romanzo, Raymond rivoluziona ancora una volta il suo modo di fare noir, con modalità ancora più radicali: non solo focalizza la sua attenzione autoriale sulla figura del colpevole, ma marginalizza ancora di più la figura del poliziotto, rappresentata in questo caso da Spaulding, ispettore della Factory, che ricopre nella vicenda un ruolo del tutto secondario e quasi da intruso. Inoltre, come vedremo, mette in discussione alcuni assunti basilari di questo genere di letteratura.
Considerando quindi la sua produzione complessiva, il fatto che lo sguardo dell’autore si soffermi di volta in volta su uno dei componenti della classica triade del giallo e del noir – la vittima, l’investigatore e il colpevole – testimonia a mio avviso un tentativo di uscire dalle costrizioni del genere, per conferire ai romanzi una funzione di scavo nella psicologia dei personaggi e nell’ambiente sociale in cui essi si muovono. Come ho già avuto modo di dire in altri commenti a sue opere, questo tentativo a Raymond riesce però solo in parte, a causa del fatto che rimane spesso prigioniero di un linguaggio stereotipato e di una certa schematicità nella caratterizzazione dei personaggi, il che raramente gli consente di uscire nel campo aperto della letteratura di qualità.
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