Recensione de I proscritti, di Honoré de Balzac
Salerno Editrice, Faville, 2003
È noto che La Commedia Umana di Balzac deve molto all’ammirazione che il narratore di Tours nutriva per Dante Alighieri e la sua Comedia. Il sottile legame tra le due opere emerge sin dal titolo dato da Balzac al suo lavoro: se a quella di Dante Boccaccio ha attribuito l’aggettivo Divina sia in quanto sublime esempio di poema sia perché – tra mille altre cose – rappresenta il percorso del Poeta che giunge a vedere Dio, quella di Balzac è una commedia umana, avendo come finalità primaria la descrizione della società moderna attraverso le classi che la compongono, le relazioni sociali che la governano e i tipi umani che la caratterizzano.
Altro elemento comune alle due opere è la struttura tripartita: alle tre cantiche dantesche fanno riscontro le tre diverse Études balzachiane: le Études de moeurs, che descrivono gli effetti delle relazioni sociali, le Études philosophiques, che risalgono alle loro cause, e infine le Études analytiques, in cui Balzac analizza i principi generali a fondamento delle cause e degli effetti.
Alla base dello sguardo di Balzac verso Dante non sta solo la generale riscoperta ad opera del romanticismo dell’autore fiorentino, dopo il sostanziale oblio cui era stato condannato in epoca illuministica, ma soprattutto le corrispondenze (mai termine fu più appropriato!) tra la struttura a gironi e cerchi del mondo delle anime descritto da Dante e le sfere celesti del filosofo e mistico svedese Emmanuel Swedenborg, che tanta influenza ha avuto sulla visione del mondo e dell’umanità di Balzac, come pure di molti altri autori tra secondo settecento e novecento, da William Blake a Carl Gustav Jung.
I proscritti, datato ottobre 1831 ma apparso a stampa già nel maggio di quell’anno, è un racconto di poche decine di pagine che ha tra i suoi protagonisti proprio Dante durante un suo non storicamente certo soggiorno parigino.
Prima di riassumere per sommi capi una trama scarna di avvenimenti ma densissima di suggestioni, è necessario inquadrare il racconto nell’ambito dell’intera Comédie Humanie e della cantica cui appartiene, le Études philosophiques. Questi sono composti da venti tra racconti e romanzi, che come detto analizzano, in senso generale, le cause dei comportamenti umani e delle relazioni sociali. Si tratta quindi di opere nelle quali si osserva un Balzac meno realista, se così si può dire, e più speculativo, anche se spesso per via indiretta. Nella struttura dell’opera generalmente accettata I proscritti occupano la terz’ultima posizione delle Études philosophiques, essendo seguiti da Louis Lambert e da Séraphîta. Nel dicembre del 1835 questo trittico di racconti fu pubblicato presso Werdet in unico volume, dal titolo Le Livre mystique, corredato da una famosa Preface nella quale l’autore sentì il bisogno di contestualizzare le tre opere, giustificando in qualche modo il suo occuparsi di misticismo, che ”è precisamente il cristianesimo al suo puro principio” e sarebbe in grado di riportare la società ad un vero sentimento etico-religioso in un’epoca di scetticismo e dubbio. L’autore attribuisce in particolare a I proscritti il ruolo di peristilio del Libro mistico, quindi di elemento introduttivo, ancorché interno, alla tematica trattata. Riporto integralmente il passaggio, con traduzione mia non essendo la Preface disponibile in italiano: ”I proscritti sono il peristilio dell’edificio; in tale racconto l’idea [il misticismo, N.d.T.] appare nel suo naturale trionfo Medioevale. Louis Lambert è il misticismo colto sul fatto, il Visionario che marcia verso la sua visione, condotto in Cielo dai fatti, dalle sue idee e dal suo temperamento: è la storia dei Veggenti. Séraphîta è il misticismo inverato, personificato, mostrato in tutte le sue conseguenze. In questo libro, dunque, la dottrina più incomprensibile ha testa, cuore e ossa, ed in esso si è incarnato il Verbo dei mistici, che l’autore ha cercato di rendere accattivante come un romanzo moderno”. Il Livre Mistyque e tutta la Comédie quindi assumono agli occhi del suo autore un ruolo didattico rispetto all’oscurità e alla complessità delle trattazioni dei mistici e di Swedenborg, come emerge in questo altro passaggio, che evidenzia il parallelismo con l’opera di Dante e la fatica dello sforzo creativo: ”Se riuscite a immaginare le migliaia di proposte che nascono in Swedenborg l’una dall’altra, come onde; se potete immaginare le sterminate lande descritte da tutti questi autori; se è possibile paragonare lo spirito che tenta di portare entro limiti logici questo mare di frasi rabbiose all’occhio che cerca di percepire una luce nel buio, allora apprezzerete il lavoro dell’autore, il peso di cui si è caricato per dar corpo a questa dottrina e metterla alla portata della sconsideratezza francese, che vuole indovinare ciò che non sa e sapere ciò che non può indovinare. Sin dall’inizio tuttavia egli aveva intuito che ciò equivaleva a scrivere una nuova divina commedia”.
L’importanza della Preface va comunque oltre il suo essere esegetica del Livre Mystique, per divenire uno dei principali luoghi in cui Balzac espone le motivazioni e l’oggetto della sua scrittura: nei primi paragrafi contiene anche una descrizione di ciò che egli intende per realismo: ”L’Ottocento, di cui l’autore tenta di delineare l’immenso quadro, senza dimenticare né l’individuo né le professioni, né gli effetti né i principi sociali, è oggi attanagliato dal Dubbio. Vi prego di notare che l’autore non discute mai per proprio conto: vede una cosa e la descrive, trova un sentimento e lo traduce, accetta i fatti così come sono, li espone e segue il suo piano, senza prestare orecchio ad accuse che si contraddicono. Avanza insensibile ai ragionamenti ottusi di chi gli chiede perché una pietra sia quadrata quando è angolare, perché un’altra sia rotonda quando completa una testa di donna in qualche metope. […]. In quest’opera ciascuno sarà quello che è: il giudice sarà giudice, il criminale sarà criminale, la donna sarà virtuosa o colpevole; l’usuraio non sarà una pecora, lo stupido non sarà un uomo di genio, e i bambini non saranno alti cinque piedi e sei pollici”.
Chi fosse interessato alla lettura della Preface può trovarla qui in originale.
I proscritti è ambientato a Parigi, e quanto narrato si svolge tra il pomeriggio di un giorno d’aprile del 1308 e la notte che segue. Il sergente della polizia municipale Joseph Tirechair qualche anno prima ha costruito la propria casa sul Terrain, punta orientale dell’île de la Cité, dietro la cattedrale di Notre-Dame, allora luogo poco abitato. Nella casa in cui vive con la moglie Jaqueline le due camere poste al piano superiore vengono affittate. Da qualche tempo vi alloggiano due stranieri: un anziano tenebroso, dallo sguardo magnetico e con la pelle bruciata dal sole ed un ventenne delicato e femmineo, dai lunghi capelli biondi e dalla pelle bianchissima, di nome Godefroid.
Tirechair vorrebbe cacciare i due ospiti, perché sospetta che siano degli stregoni. La moglie però cerca di calmarlo, anche perché una delle signore che la aiutano nel suo lavoro di lavandaia in realtà è una contessa e la paga bene per poter vegliare sul giovane Godefroid, che una lettera rivela essere il conte di Gand.
Nel frattempo i due ospiti, attraversata la Senna su un traghetto, hanno raggiunto la vicina Rue du Fuarre, sulla Rive Gauche, dove in un’aula dell’Università tiene lezione il celebre teologo Sigieri da Brabante. Questi riconosce lo straniero e lo fa accomodare, insieme a Godefroid, sulla predella del suo scranno. Nella lezione, Sigieri riassume la sua teologia, secondo cui le diverse intelligenze e forze morali che dio ha dato agli uomini corrispondono a sfere di un diverso grado di spiritualità, intermedie tra quelle della natura e quelle della spiritualità degli angeli. Ogni sfera, da quella dei minerali inanimati a quelle angeliche più prossime a dio, merita rispetto, in quanto porta l’impronta del creatore, che a ciascun essere ha assegnato una missione. Gli uomini, attraverso la fede, possono passare da una sfera all’altra ed avvicinarsi alla condizione angelica, sino a vedere dio, che è luce. Dio è presente in ogni istante in ciascuna cosa creata; come dice San Paolo ”In Deo vivimus, movemus et sumus”.
Terminata la lezione, Sigieri e lo straniero discutono di teologia in una lingua sconosciuta, camminando verso la riva della Senna, dove si salutano, Sul traghetto di ritorno il vecchio piange la sua patria perduta e lamenta la sua condizione di esule. Anche Godefroid piange, rivelando al vecchio di sentirsi come un angelo bandito dal cielo. Nella notte lo straniero sta scrivendo la sua opera, quando sente un tonfo nella camera accanto: si precipita e trova Godefroid a terra svenuto, con al collo il cappio con cui ha cercato di uccidersi, per tornare ad essere un angelo celeste. Il vecchio lo rincuora, rimproverandolo tuttavia per aver cercato di giungere a Dio attraverso la scorciatoia del suicidio, invece di seguire i sentieri che dio gli ha assegnato. Racconta quindi al giovane come egli sia stato costretto a scandagliare tutti i dolori del mondo, narrandogli di quando, giunto con il suo maestro in una regione di confine tra gli inferi e il cielo, avesse visto l’anima di un certo Honorino che, separato in terra dall’amatissima moglie, anelava a raggiungerla, ma il ricongiungimento gli venisse negato di giorno in giorno, in quanto il suo desiderio del Paradiso non scaturiva dal puro anelito verso Dio. In quel mentre giungono dei messaggeri a cavallo, annunciando al vecchio, chiamato finalmente dal narratore Dante Alighieri, che può tornare a Firenze. Mentre Dante invita Godefroid a seguirlo in Italia entra la contessa, madre del giovane i cui diritti nobiliari sono stati alfine riconosciuti. Il racconto termina con Dante che fieramente esclama: ”Partiamo. […] Morte ai Guelfi!”.
Racconto densissimo di livelli interpretativi, rimandi e richiami a dispetto della sua relativa brevità, I proscritti affascina il lettore sin dalla sua struttura, anch’essa tripartita, come sottolineato nella prima edizione del 1831, nella quale il racconto era suddiviso in tre capitoli, chiusi dalle due traversate della Senna, che rimandano immediatamente alla Comedia dantesca. Nella prima parte, dedicata al rozzo Tirechair, il cui nome significa squarciacarne) e ai suoi dubbi sugli ospiti, siamo alla presenza del solito Balzac realista, sia pure in versione storica. Accuratissima è la descrizione dell’angolo dell’île de la Cité dove sorge la casetta del sergente, delle sue stanze e dei suoi dintorni, persino delle opere di sistemazione realizzate dalla municipalità per difendere l’isola dalle piene, come pure dell’aspetto e dell’abbigliamento dei personaggi.
La seconda parte è dedicata alla figura e alla mistica di Sigieri da Brabante, teologo di cui in realtà non si sa molto e la cui notorietà è in gran parte dovuta proprio a Dante, che lo colloca tra i sapienti (Par. X, 133-138), ricordando tra l’altro che insegnava nel Vico de li Strami (Rue du Fuarre si traduce in Via della Paglia). Sigieri fu anch’egli proscritto, bandito dall’insegnamento per le idee averroiste, ed il suo misticismo per Balzac anticipa quello di Swedenborg.
Nella terza parte, di ritorno sull’isola, il fallito suicidio di Godefroid (anche questo nome onomatopeico che rimanda peraltro ad un amico repubblicano dell’autore, esiliato) permette a Balzac di asserire che la vera elevazione alle sfere superiori della spiritualità si raggiunge solo attraverso l’accettazione delle proprie responsabilità civili e morali e la lotta contro i vizi sociali. In essa, oltre all’agnizione finale dei due personaggi, spicca anche la storia nella storia di Honorino, che palesemente gioca un ruolo decisivo nell’interpretazione del racconto.
Le tre parti possono anche essere viste come richiami alle cantiche dantesche: la materialità della città e di Tirechair hanno un ché di infernale, richiamando altre descrizioni balzachiane dell’inferno cittadino, cui fanno da contrappunto le sfere spirituali di Sigieri che rimandano al paradiso dantesco; nella terza parte la via dell’elevazione indicata da Dante a fronte dell’errore di Godefroid richiama l’anelito al cielo delle anime del purgatorio.
Ma dove può essere cercato il significato profondo del racconto, una volta dato per scontato il suo ruolo di prima esposizione del misticismo balzachiano? A mio avviso esso è intimamente legato alla funzione che Balzac si attribuiva in quanto intellettuale che si era dato il compito di descrivere la società in cui viveva, mettendone a nudo i meccanismi reali di funzionamento, ed all’immane sforzo che tale compito comportava.
Balzac si identifica in Dante: come lui deve combattere contro il potere usando l’arma della penna; per far questo, come lui deve descrivere il mondo, nelle sue articolazioni più minute; come lui deve scrivere una Commedia, che sarà però umana, non vivendo egli nel medioevo; come lui la condizione per accendere la lampada ispiratrice è la proscrizione, nel suo caso intellettuale. Qual è lo strumento filosofico e morale che gli permetterà di sopportare l’immenso peso di questa solitudine e delle migliaia di pagine che deve scrivere? Egli lo trova nel misticismo di Swedenborg, nella coscienza che questo carico di responsabilità è il modo per avvicinarsi alla luce della verità, a Dio; analogamente nel racconto avviene a Dante, che dopo aver ascoltato Sigieri può gridare quel ”Morte ai Guelfi!” che potrebbe benissimo essere il grido di battaglia di un Balzac che ha ormai dichiarato guerra alla società in cui vive. Anche lui, del resto, ha in passato sbagliato: invece che cercare la verità, scrivendo ciò che riteneva giusto, come Honorino (palese l’identificazione) ha anelato al particulare, ha scritto per il proprio interesse del momento: ora però è pronto ad affrontare l’ignoto della sua potenza creatrice.
Non a caso Balzac, sempre così attento alla verosimiglianza anche temporale delle sue narrazioni, è costretto in questo caso ad introdurre un palese anacronismo, puntualmente rilevato ma non compreso appieno nell’introduzione di Daniela De Agostini: nel 1308 infatti Sigieri era già morto da oltre vent’anni: è però necessario all’autore che egli incontri Dante e gli esponga le sue idee, perché in quegli anni il Sommo Poeta era all’inizio della composizione della sua opera maggiore, esattamente come nel 1831 Balzac era solo all’inizio della sua, di Commedia.
I proscritti, come gli altri testi del Livre Mystique, ci regalano un Balzac apparentemente diverso dal grande realista che si incontra leggendo i romanzi delle Études de meurs: non a caso il Livre sarà più tardi uno dei testi di riferimento di simbolisti e modernisti francesi. È però forse ancora più affascinante, perché tenta di spiegare le ragioni ultime della faticosa costruzione del suo grandioso edificio letterario, senza il quale avremmo sicuramente meno strumenti per tentare di capire il mondo in cui viviamo ancora oggi. Ed ora, superato il perisitilio, addentriamoci nelle stanze più segrete della casa mistica balzachiana.