Recensione de La gente di Hemsö, di Johan August Strindberg
Mursia, GUM, 1988
Dopo le fatiche di Inferno questo terzo, e per ora ultimo, capitolo di letture strindberghiane mi ha riservato il romanzo forse più leggero nonché probabilmente il più noto dell’autore svedese, nonostante l’editoria italiana gli abbia riservato, almeno negli ultimi decenni, scarsa attenzione, tanto che oggi l’unica edizione rinvenibile in libreria è ancora questa, risalente agli anni ‘80, e solo grazie a disponibilità di magazzino dell’editore.
Dei tanti Strindberg che il lettore incontra leggendo le sue numerose opere, quello di La gente di Hemsö è senza dubbio il più schiettamente naturalista (anche se come vedremo di un naturalismo atipico) e quello che sa attingere forse per l’unica volta al registro comico per caratterizzare i suoi personaggi e le situazioni in cui si vengono a trovare.
Il romanzo uscì nel 1887, in un periodo (tanto per cambiare) difficile per l’autore. Tre anni prima – abbandonata già la Svezia per la Francia e poi la Svizzera – ha subito un processo per blasfemia a causa del contenuto delle novelle raccolte in Sposarsi, e da allora è stato oggetto in patria di una forte marginalizzazione da parte dell’industria culturale, tanto che il suo pur fedele editore si rifiuta di pubblicare il quarto volume dell’autobiografia Il figlio della serva. Il matrimonio con Siri von Essen sta andando a rotoli, anche a causa della sua (di lui) ossessiva gelosia: saranno di questo periodo i drammi teatrali misogini e naturalisti che ho recentemente commentato.
Strindberg ha uno stringente bisogno di pubblicare, anche per ragioni economiche. Raccoglie così l’invito (o meglio l’ordine) del suo editore ad abbandonare la scrittura autobiografica per dedicarsi di nuovo al romanzo, genere che quasi dieci anni prima gli aveva dato la notorietà con La sala rossa; rifacendosi alle esperienze giovanili di soggiorno estivo nelle isole dell’arcipelago di Stoccolma scrive in pochi mesi La gente di Hemsö, che sarà accolto favorevolmente dalla critica, anche se le vendite saranno piuttosto scarse.
Il romanzo nasce quindi anche per esigenze editoriali, e sicuramente ciò ne condiziona il taglio, così diverso dalle altre opere dell’autore. Del resto lo stesso Strindberg, come fa notare Franco Perrelli nell’eccellente prefazione, ha più volte in seguito disconosciuto questa sua opera, definendola ”un’opera ordinaria, scritta per divertimento in ore tristi” ed affermando ”quando l’ho visto sulla carta l’ho trovato insignificante” e che si trattava ”solo [di] un intermezzo scherzando tra le battaglie”. Trattandosi di Strindberg, del contraddittorio Strindberg, non sono mancati comunque da parte dell’autore nel corso degli anni anche giudizi opposti rispetto a questa sua opera, che definirà una ”schietta descrizione della natura e della vita del popolo” e ”il mio libro più sensato”.
Il romanzo è ambientato in una delle miriadi di isole e isolotti dell’arcipelago ad est di Stoccolma, la piccola Hemsö (il nome è di fantasia), abitata dai Flod e dai loro lavoranti. La signora Flod, non ancora vecchia, è vedova da qualche anno, ed ha tre figli: Gusten, ormai adulto, che si dedica alla pesca e alla caccia, Clara e Lotte, poco più che adolescenti. Completano la piccola comunità i due garzoni Norman e Rundqvist, compagno fedele di Gusten nelle sue avventure venatorie il primo, simpatico scansafatiche il secondo. I Flod vivono, oltre che di pesca, di agricoltura e allevamento, ma da quando il vecchio Flod è morto le cose vanno male, perché Gusten non si cura dei campi e del bestiame. La vedova Flod decide allora di assumere un soprastante, e il romanzo si apre nel momento in cui Carlsson, un giovane proveniente da una provincia dell’interno e con alle spalle molti mestieri, giunge nella fattoria: riporto l’incipit, perché degno di nota, anche se a mio avviso affetto da una stonatura ritmica della peraltro brillante traduzione di Franco Perrelli.
”Arrivò come un uragano, una sera d’aprile, facendo penzolare da una correggia appesa al collo, una fiaschetta”.
E proprio come un uragano Carlsson sconvolge gli equilibri economici e personali della piccola comunità familiare. Ambizioso e sfrontato, ma anche intraprendente e capace, in breve tempo introduce nuove tecniche agronomiche e risolleva l’allevamento, rimettendo in sesto il bilancio aziendale; sistema inoltre la nuova stuga, la casa costruita dal vecchio Flod prima di morire, da allora abbandonata, e la affitta per l’estate alla famiglia di un distinto professore d’orchestra.
Non tutto però va per il meglio: da subito scoppia il conflitto tra il nuovo venuto e Gusten, che si sente defraudato del suo ruolo di capofamiglia, peraltro non esercitato causa scarso interesse per la fattoria; anche Rundqvist, che vede minacciati i suoi ozi, non gradisce l’attivismo di Carlsson.
L’ambizione di Carlsson lo porta comunque a pensare di sistemarsi, lasciando prima o poi Hemsö. Rivolge quindi le sue attenzioni verso Ida, la bella cuoca della famiglia che ha affittato la stuga, venendo di fatto preso in giro dalla giovane cittadina per la sua goffaggine contadinesca.
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