Recensione de Il vitello d’oro, di Il’ja Il’f ed Evgenij Petrov
Studio Tesi, Collezione Il flauto magico, 1992
Andare alla ricerca oggi di un libro di Il’ja Il’f ed Evgenij Petrov in Italia è impresa difficile. La coppia di scrittori satirici sovietici scrisse infatti pochi romanzi – essendo entrambi i suoi componenti morti giovani – e di questi solo tre sono stati pubblicati nel nostro paese. Il più famoso è senza dubbio Le dodici sedie, del 1927, da cui sono stati tratti numerosi film, tra i quali uno di Mel Brooks (1970) e uno di Carlo Mazzacurati (il suo ultimo lavoro, 2013). Cercando in rete, ho trovato di questo romanzo solo una edizione di Lucarini del 1988, dispersa, e una Rizzoli (1993 – 2005), oggi disponibile solo in e-book. Ancora più arduo, anche nei canali dell’usato, reperire Il vitello d’oro, del 1931, edito originariamente nel nostro paese dagli editori Riuniti nel 1962 e quindi da Studio Tesi nel 1992, e il meno noto Il paese di Dio (1936), dato alle stampe da Einaudi nel lontano 1947.
Similmente ad altre opere della letteratura sovietica incontrate sul mio cammino di lettore, che non fossero della dissidenza o di denuncia esplicita del potere, anche queste sembrano essere state semplicemente rimosse dall’editoria nostrana, forse perché non aderiscono perfettamente alla vulgata della monoliticità e del controllo asfissiante di tale potere sui prodotti culturali.
Per comprendere meglio l’epoca in cui i due romanzi più noti di Il’f e Petrov videro la luce è necessario fare attenzione alle loro date d’uscita. Mentre Le dodici sedie viene pubblicato durante gli ultimi anni della NEP, Il vitello d’oro è edito in un anno nel quale la politica economica dell’URSS ha subito un profondo cambiamento: Stalin, consolidato il suo potere, ha di fatto già liquidato la Nuova Politica Economica di Lenin (morto ormai da alcuni anni) e di Bucharin, ed è in pieno sviluppo il primo piano quinquennale, che punta sull’infrastrutturazione del Paese, sull’industrializzazione pesante e sulla collettivizzazione delle campagne. Anche se le purghe sono ancora lontane è indubbio che ormai l’ala staliniana del partito ha il pieno controllo dell’apparato: nella percezione oggi comune, anche da parte di chi non è anticomunista, questo periodo è sentito come quello della brusca normalizzazione, della fine degli entusiasmi e della vivacità culturale che avevano caratterizzato i primi anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre, sostituiti da un potere che si stava sempre più burocratizzando. Uno spartiacque fortemente simbolico in questo senso può essere fissato nel giorno del suicidio di Vladimir Majakovskij, il 14 aprile 1930.
L’attività letteraria di Il’f e Petrov, insieme a quella di molti altri autori, pare invece dimostrare che neppure in quel periodo, almeno al suo inizio, calò sulla cultura sovietica una cappa di piombo impenetrabile, ma che alcuni spazi di critica e di satira erano rimasti aperti.
Il’ja Il’f e Evgenij Petrov non erano infatti due dissidenti emarginati. Giornalisti, specializzati in pezzi satirici, il primo scrisse anche per giornali ufficiali come la Pravda e la Literaturnaya Gazeta, morendo – non in un gulag ma di tubercolosi – nel 1937; Petrov divenne più tardi corrispondente di guerra e perì nel 1942 per l’abbattimento da parte dei tedeschi dell’aeroplano con il quale stava rientrando dal fronte di Sebastopoli.
Il vitello d’oro è fortemente collegato a Le dodici sedie, di cui costituisce una sorta di continuazione, avendo come protagonista la figura di Ostap Bender, il grande impresario (traduzione forse non troppo precisa dell’originario velikij kombinator) che viene resuscitato (probabilmente a furor di popolo, come già accaduto a Sherlock Holmes) dopo essere morto alla fine del primo romanzo.
Ed è proprio la figura di questa simpatica canaglia, di questo truffatore colto e sagace, a suo modo onesto anche se cinico, che costituisce uno dei tratti di spicco di questo romanzo. Come fa notare Caterina Graziadei nella sua imperdibile introduzione, la figura di Ostap Bender affonda le sue radici nella commedia dell’arte, richiamando il servo furbo, e nel romanzo picaresco (Graziadei individua come prototipo di Bender Lazzarillo de Tormes), in quest’ultimo caso soprattutto per l’importanza che nei romanzi che lo vedono protagonista assume il motivo del viaggio, visto che la narrazione non avviene in prima persona come nel romanzo picaresco classico.
Ma Bender è anche il prodotto di due altri importanti fattori: la grande letteratura russa – in particolare evidenti sono le ascendenze Gogoliane – e l’ottobre, la grandissima vivacità culturale scatenata dalla rivoluzione che, come detto, non era affatto morta una dozzina d’anni dopo.
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