Recensione de La svastica sul sole, di Philip K. Dick
Fanucci, 25 anni per 25 libri, 2007
Ultimo capitolo della mia personale trilogia dickiana, La svastica sul sole è anche l’ultimo mio incontro con questo autore: infatti ho letto, in tempi diversi, tutti i sei volumi di Dick presenti nella mia biblioteca e non ho alcuna intenzione di acquistarne altri, visto che – come ho più volte affermato parlando dei suoi romanzi – lo ritengo un minore, di cui è giusto conoscere l’opera ma che non mi pare meritare ulteriori approfondimenti.
Termino comunque la mia esperienza con Dick in bellezza, perché La svastica sul sole è sicuramente, tra quelli che ho letto, uno dei suoi romanzi più coinvolgenti, ed anche uno di quelli in cui meno si sente il pesante ricorso ai tecnicismi fantascientifici che rendono a tratti insopportabile la sua scrittura. Ne La svastica sul sole non siamo infatti sul terreno della fantascienza propriamente detta, quanto in quello dell’ucronìa, ovvero della costruzione di uno sviluppo storico alternativo a quello reale: nello specifico, come noto data la popolarità del romanzo, Dick ambienta la sua storia in un mondo a lui contemporaneo, ma nel quale nazisti e giapponesi hanno vinto la seconda guerra mondiale (e che ne è stato dell’Italia fascista, terza gamba del patto tripartito? Dick accenna anche al nostro paese…) Non è quindi necessario all’autore immaginare tecnologie e scenari futuribili oppure i mostri domestici generati dall’apocalisse atomica, che tanto contribuiscono a mio avviso ad indebolire le sue storie, data la sua incapacità di uscire al riguardo da una certa qual stereotipia. Se si eccettuano i razzi che trasportano passeggeri da Berlino a San Francisco in 45 minuti e pochi altri particolari gli scenari in cui sono ambientate le vicende dei protagonisti di questo romanzo sono di fatto contemporanei, e l’immaginazione di Dick si può concentrare sulla situazione politica e sociale generata dall’esito della guerra, con esiti che ritengo di maggiore portata letteraria. Intendiamoci, la prosa di Dick evidenzia anche in questo caso tutti i limiti strutturali che ho cercato di evidenziare anche nelle mie precedenti note, ma mi sento di dire che tali limiti in questo romanzo non sono amplificati dalla necessità di far capire al lettore come è organizzato un viaggio su Marte o di fargli conoscere improbabili cani parlanti o topi che suonano il flauto.
Cercherò di entrare il meno possibile nella trama del libro, ma al fine di poterne cogliere i tratti che ritengo essenziali è necessario descrivere lo scenario in cui si svolgono le vicende dei personaggi di questo romanzo per certi versi corale. Come accade spesso nelle opere di Dick, questo scenario non è presentato in maniera didascalica all’inizio del romanzo, ma il lettore lo deve ricostruire per tasselli successivi, basandosi sui dialoghi tra i protagonisti, su loro riflessioni e pensieri, su interventi dell’io narrante impersonale. Questa modalità narrativa, che ho ritrovato nei tre i romanzi dell’autore da me letti recentemente, richiede che il romanzo inizi in media res, con una situazione apparentemente normale e in genere minimale: in questo caso l’incipit riguarda l’apertura mattutina del suo negozio da parte di Robert Childan (per inciso: l’apertura di un negozio è anche l’incipit di Cronache del dopobomba, che Dick ha scritto nello stesso periodo). Subito però il lettore si rende conto che la situazione presenta elementi di diversità: Childan infatti aspetta un plico che gli deve arrivare dagli Stati delle Montagne Rocciose, e osservando il brulicare della vita di San Francisco vede in lontananza un mezzo pubblico elettrico. Così, da queste briciole di pane sparse nel testo quasi casualmente, il lettore inizia a ricostruire il contesto in cui sono immerse le vicende narrate. Si tratta di una tecnica sicuramente non nuova ma che indubbiamente possiede un suo peculiare fascino letterario, perché permette al lettore di sentirsi partecipe della scoperta dei luoghi e delle atmosfere in cui si trova mentre legge. È però proprio l’uso a mio avviso maldestro di questa tecnica narrativa che evidenzia plasticamente alcuni dei limiti principali della scrittura di Dick. In contraddizione con i principi fondanti di questa tecnica, sembra infatti che egli abbia comunque l’ansia di spiegare al lettore il contesto generale dei suoi romanzi, infarcendo il testo di lunghi monologhi interiori o di interventi diretti del narratore terzo, volti ad illustrare la situazione e finendo così non solo per essere parimenti didascalico che se avesse spiegato tutto e subito, ma per conferire alla sua prosa quella disastrosa discontinuità che molti critici giustamente gli addebitano.
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