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Chevalerie campagnarde à la Bourguignonne

Recensione de Il calore del sangue, di Irène Némirovsky

Adelphi, Piccola Biblioteca, 2008

Il calore del sangue è un’opera che appartiene a pieno titolo alla (ormai relativamente) recente riscoperta di Irène Némirovsky. Come Suite francese fu pubblicata infatti solo nel primo decennio di questo secolo. Némirovsky la scrive nel 1941, quando, a seguito delle restrizioni imposte agli ebrei nella Francia occupata, si era già ritirata con la famiglia a Issy-l’Evêque, in Borgogna. Ne completa circa un terzo, dando il manoscritto, come era solita fare, al marito perché lo battesse a macchina: per molti decenni anche le figlie, depositarie del famoso baule dei manoscritti di Irène, ritennero che, di quello che la stessa autrice non sapeva se far diventare un romanzo, una novella o una pièce teatrale, avesse scritto solo le poche pagine dattiloscritte. È solo quando, negli anni ‘90, il baule viene finalmente aperto e il suo contenuto analizzato a fondo che – oltre al manoscritto dell’incompiuto Suite francese – restituisce anche una trentina di ulteriori pagine manoscritte de Il calore del sangue, che verrà pubblicato nel 2007 presso l’editore Denoël e l’anno successivo in Italia da Adelphi. Anche se non ho trovato alcun accenno in merito, né nella prefazione all’edizione francese di Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt – biografi della scrittrice – riportata da Adelphi come postfazione, né nelle recensioni reperibili in rete che ho letto, a mio avviso è evidente che Il calore del sangue, nonostante l’aggiunta delle pagine manoscritte ritrovate, rimane un’opera incompiuta. Pur non interrompendosi nel mezzo di una frase, come la prima parte dattiloscritta, la narrazione termina abbastanza bruscamente durante importanti riflessioni e ricordi del personaggio-narratore, e manca secondo me quantomeno una parte che giunga alle conseguenze ultime dei fatti narrati e dei rapporti affettivi e sociali tra i personaggi. Forse Némirovsky ha dovuto forzatamente abbandonarne la scrittura nel luglio 1942 a causa dell’arresto, oppure può darsi che abbia riposto il romanzo minore per dedicare tutta sé stessa alla redazione di Suite francese. Chissà.
Tuttavia, come spesso ho avuto modo di constatare, capita che i romanzi incompiuti siano comunque perfetti, e che una parte del loro fascino derivi proprio dalla loro indeterminatezza, che lascia al lettore ampie possibilità di immaginare. È questo anche il caso de Il calore del sangue, che contiene sufficienti elementi per permettere al lettore di inquadrare con precisione il contesto in cui la vicenda avviene nonché i fatti salienti di cui questa si compone, che a loro volta contribuiscono a delineare il carattere dei personaggi.
Il romanzo è ambientato in un villaggio della provincia francese, facilmente identificabile con Issy-l’Evêque, e presenta subito una sostanziale diversità rispetto alla maggioranza delle opere dell’autrice franco-ucraina. Ella è infatti solita, in piena coerenza con il ”tono familiare del naturalista” che ha sempre cercato nelle sue opere, avvalersi del narratore terzo onnisciente, spesso anche pedante, se posso permettermi. Solo in qualche novella, nel romanzo L’affare Kurilov e in questa opera utilizza un narratore in prima persona, e in questi due ultimi casi l’io narrante è un uomo. Se però ne L’affare Kurilov la scelta appare giustificata dalla necessità di far raccontare la vicenda a chi ne è stato il principale protagonista, qui appare più arduo trovare una giustificazione immediata a questa eccentrica scelta, in quanto Sylvestre, l’ormai anziano cugino della famiglia protagonista del romanzo, che ha viaggiato per il mondo sperperando l’eredità, tornando solamente dopo molto tempo a vivere da solo nella casa avita, per buona parte del romanzo si limita ad osservare ciò che accade, pur essendone coinvolto in quanto, come detto, parente dei protagonisti. Questi sono innanzitutto gli Érard, François ed Hélène, una coppia perfetta di mezza età, il cui placido amore ha generato quattro figli, dei quali la maggiore, Colette, all’inizio del romanzo è in procinto di sposare un bravo e timido giovane del luogo, Jean Dorin, e di andare perciò a vivere a Moulin-Neuf, il mulino da generazioni della famiglia di lui, situato poco lontano dal paese.
Altra protagonista del romanzo è Brigitte Declos, giovane e bella ventiquattrenne sposata con un anziano possidente del luogo, avaro e scaltro. Brigitte è una trovatella, adottata da piccola dalla sorellastra di Hélène Érard, ormai morta da tempo, e vive con il marito non lontano da Moulin-Neuf. In paese ha fama di essere molto disinvolta: spende i soldi del marito in vestiti fatti arrivare da Parigi e probabilmente ha per amante un prestante giovane del luogo, Marc Ohnet.
C’è poi un protagonista collettivo: la gente del paese, che Némirovsky caratterizza sin dalle prime pagine: ”Questa terra, al centro della Francia, è selvaggia e ricca al tempo stesso. Ciascuno se ne sta in casa propria, sui propri possedimenti, non si fida del vicino, ripone il grano, conta i soldi e non si cura del resto. Niente grandi ville, niente visite. Qui regna una borghesia ancora vicinissima al popolo da cui è appena emersa, gente il cui sangue non si è ancora impoverito, e che ama tutti i beni della terra”. Una descrizione che riflette probabilmente il sentimento ambivalente nutrito dall’autrice per le atmosfere umane della provincia rurale in cui con la famiglia aveva forzatamente dovuto ritirarsi, lei abituata da sempre al glamour e alla vacuità degli ambienti alto-borghesi, spesso oggetto delle sue opere.
Dunque l’anziano Sylvestre – nome che probabilmente fa riferimento al suo isolamento geografico e sociale rispetto alla comunità – osserva e descrive, con occhio indulgente, parziale ed anche con un po’ di invidia, la tranquilla felicità di una famiglia che sta per celebrare uno dei riti cardine della società borghese: il matrimonio di una figlia con un agiato e stimato giovane, che sarà presto allietato dalla nascita di un figlio. Solo alcuni mesi dopo, però, in questo quadro idilliaco si insinua la tragedia: una sera, tornando a casa da un viaggio d’affari, Jean Dorin cade dal ponticello sotto il quale passa il fiume che lambisce il mulino, e la mattina dopo viene trovato annegato. Il buon Sylvestre sa come sono andate veramente le cose e perché sono accadute, e come lui tutto il paese, che si è chiuso in una omertà volta a salvaguardare le apparenze. Quando la verità sull’accaduto nonostante tutto viene parzialmente a galla, Sylvestre non può più nascondere a sé stesso (e al lettore) che esso affonda le sue radici morali in un ardore dei sensi (il calore del sangue del titolo) che tutto travolge, e ha marchiato un tempo anche lui: si scopre così che egli non è un semplice osservatore appartato dei fatti, ma – sia pur indirettamente – ne è uno degli dei ex machina. Mi scuso per il periodare piuttosto circonvoluto, ma – assumendo il romanzo poco a poco la struttura quasi di un giallo nel quale non mancano i colpi di scena – non mi azzardo a svelarne più esplicitamente la trama.
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Appendice foderata di una buona dose di antisemitismo (di necessità?)

Recensione de I cani e i lupi, di Irène Némirovsky

Adelphi, Biblioteca, 2008

Sono stato oltre tre anni senza leggere alcun libro di Irène Némirovsky. Da allora importanti avvenimenti, quali la pandemia, l’acuirsi delle tensioni internazionali sino alla guerra tra la Russia e la NATO (pardon, l’Ucraina, la NATO non essendo ovviamente coinvolta nel conflitto, limitandosi a fornire armi agli eroici resistenti che le avevano quasi finite in otto anni di bombardamenti del Donbass), lo scudetto del Milan e da ultimo, proprio in queste settimane, l’angoscia sul destino politico di Draghi mi hanno distolto da quello che avrebbe dovuto essere l’interrogativo fondamentale cui dare una risposta: Irène Némirovsky è stata una grande scrittrice, come affermano stuoli di suoi entusiasti ammiratori e la sua importanza editoriale nel nostro Paese, oppure, come mi ero azzardato ad affermare nei commenti ai due suoi ultimi romanzi letti, siamo di fronte ad una autrice minore nel panorama letterario della prima metà del XX secolo?
Non essendo possibile sfuggire per sempre ai propri doveri, dopo questi anni vissuti in colpevole oblio del fatidico dilemma, mi si sono presentati in lettura, a mo’ di nemesi, ben tre romanzi della scrittrice franco-ucraina, dei quali il primo è I cani e i lupi, ultimo romanzo pubblicato lei in vita, nel 1940. Dice un celebre motto che due indizi fanno una prova: non so se sia possibile applicare questo criterio anche alla vasta opera della scrittrice; sta di fatto che ai due indizi sullo scarso spessore letterario di Némirovsky raccolti alcuni anni or sono se ne è aggiunto un terzo, forse decisivo. I cani e i lupi è infatti, a mio avviso, un romanzo triviale, non nel senso di volgare o sguaiato, ma in quello, riferito nel vocabolario Treccani proprio alla letteratura, di caratterizzato da scarso impegno tematico e formale. Come di consueto è necessario accennare alla trama del romanzo per giustificare questa affermazione, passibile senza dubbio di scatenare una lunga diatriba critica.
Protagonista del romanzo è Ada Sinner, appartenente ad una famiglia della piccolissima borghesia ebraica dell’Ucraina zarista. Il lettore incontra Ada a Kiev negli anni precedenti la prima guerra mondiale, quando, bambina e già orfana di madre, segue il padre Israel, piccolo mediatore della compravendita delle più svariate merci, nel suo itinerante lavoro. Oltre al padre, con Ada vivono il nonno materno e la cuoca Nataša, usa ad accogliere quasi ogni sera nella sua stanzetta i numerosi amanti. Ben presto alla famigliola si aggiunge la giovane vedova del fratello di Israel con i due figli Ben, quasi coetaneo di Ada, e Lilla, di poco più grande.
I Sinner vivono nel girone dei comuni mortali della città. In città bassa, nel ghetto vero e proprio, vivono gli ebrei poveri. Sentiamo come Némirovsky descrive, proprio all’inizio del romanzo, questo quartiere e i suoi abitanti: ”… vicino al fiume viveva la marmaglia – ebrei infrequentabili, piccoli artigiani e commercianti in squallide botteghe a pigione, vagabondi, frotte di bambini che si rotolavano nel fango e parlavano solo yiddish, vestiti di stracci, con enormi berretti sui colli esili e sui lunghi boccoli neri”. In alto sulla collina, accanto alle ville dei gentili ricchi vi sono quelle dei pochi ebrei facoltosi, che pagando hanno potuto derogare al divieto di stabilirvisi (sino al 1917 in Russia agli ebrei era consentito vivere solo in alcune province dell’impero e solo in alcune aree delle città). Tra questi due estremi vive appunto la piccola borghesia, sempre timorosa di essere ricacciata nel ghetto dalla miseria e sempre in attesa di far fortuna per potersi trasferire sulla collina, dove tra le altre vive una famiglia di lontani parenti di Israel, ricchissimi banchieri il cui patrimonio è paragonabile a quello dei Rothschild, con i quali i Sinner poveri non hanno ovviamente alcun rapporto.
Durante un drammatico pogrom Ada e Ben si perdono nella città alta, e bussano disperati alla porta dei quasi parenti. Sono sporchi e malandati, venendo ricevuti con sussiegoso disprezzo associato ad una carità pelosa. Ada però rimane profondamente colpita dal lusso che percepisce nonché dai modi e dall’aspetto del timido rampollo della famiglia, Harry, di poco più grande di lei, che sebbene somigli molto a Ben porta in sé le stimmate della raffinatezza e della vita che lei sogna di poter fare.
Dopo alcuni anni le condizioni economiche dei Sinner sono alquanto migliorate, tanto che i ragazzi possono permettersi un’istitutrice francese. Sebbene a Ben la leghi una profonda amicizia, Ada pensa spesso ad Harry, che rivede ad una recita scolastica: mentre lui non bada alla lontana parente, vuoi per timidezza vuoi per la coscienza della distanza sociale che li separa, in Ada si rinnova quello che diviene ben presto un amore adolescenziale a senso unico.
Le presunte doti di attrice e cantante della disinvolta cugina Lilla e l’inclinazione di Ada per la pittura portano Madame Mimi, l’istitutrice francese, a proporre alla zia di Ada di trasferirsi con i due figli e la nipote a Parigi, dove le due ragazze avrebbero potuto certamente andare incontro ad una luminosa carriera artistica. Quando papà Israel acconsente a separarsi dalla figlia l’eterogeneo gruppo sale, nel maggio del 1914, su un treno alla volta della capitale francese.
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