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Potente ed attuale: non ho altre parole, vostro onore

Recensione di Biribi – disciplina militare, di Georges Darien

Le nubi edizioni, Elettra, 2009

“Soffro… Soffrirò ancora a lungo, probabilmente; ma finché avrò fiato, finché sentirò il mio cuore di uomo battere sotto il pastrano grigio da galeotto, resisterò all’aspra ascesa delle passioni che consumano, degli impeti d’ira sterili. Dura troppo poco, vedi, la collera. Non so che farci dei deliri che il vento si porta via e dei furori di una notte.
Quello che mi serve, quello che voglio portarmi via di qui, tutto intero, terribile e che mi brucia il cuore, è l’odio; l’odio che voglio custodire dentro di me, sotto l’impassibilità della carcassa. Perché l’odio è bravo e spietato; il tempo non lo smussa, non scende a patti. Aumenta con gli anni; ogni giorno di abiezione lo aumenta; ogni ora di sdegno lo feconda, ogni lacrima lo fa più sano, ogni stridio di denti più implacabile”.

Chi scrive queste terribili e magnifiche parole è Georges Darien, scrittore e polemista anarchico francese attivo a cavallo tra XIX e XX secolo, nel suo romanzo Biribi – disciplina militare, pubblicato nel 1890, nel quale traspone la sua esperienza di soldato mandato in Tunisia in una compagnia disciplinare, i famigerati reparti punitivi cui venivano assegnati, con una decisione del Consiglio di Guerra, sorta di tribunale militare senza appello, gli elementi turbolenti che non si assoggettavano completamente alla ferrea disciplina dell’esercito francese.
Personalmente la ritengo una grande verità: oggi più che mai bisogna coltivare l’odio. Bisogna coltivare l’odio verso chi, per difendere un incancrenito dominio sul mondo basato da sempre sulla difesa del profitto di pochi, sull’ingiustizia e sulla violenza, non sta esitando a trascinare la terra verso la catastrofe definitiva, narrando le proprie nefandezze come difesa della libertà. Bisogna coltivare l’odio verso chi da più di settant’anni nega il diritto all’esistenza e all’autodeterminazione di un popolo ed oggi ha deciso che quel popolo debba sparire dalla faccia della terra. Bisogna coltivare l’odio verso chi sta resuscitando e legittimando fantasmi del passato che i nostri padri hanno schiacciato a prezzo della vita. Bisogna coltivare l’odio verso chi a tutti i livelli opera incessantemente perché i ricchi siano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Bisogna coltivare l’odio verso chi ogni giorno, obbedendo ciecamente ai suoi padroni, distorce e nasconde i fatti, riscrive la Storia, chiama verità la menzogna, chiama autodifesa i bombardamenti indiscriminati, chiama pace la guerra, chiama antisemitismo la sacrosanta indignazione verso i crimini di uno stato e spaccia per informazione ciò che è solo bieca propaganda di orwelliana memoria. Bisogna coltivare l’odio, come diceva uno dei più grandi intellettuali che questo disgraziato paese abbia mai avuto, verso gli indifferenti che con la loro ignavia permettono tutto questo, aggrappati ad un illusorio benessere materiale, unico valore della loro squallida vita, che gli verrà sfilato sotto i piedi mentre staranno guardando l’ennesimo show alla televisione o chattando con qualche amico sui social, larve che hanno ormai sostituito l’odio con l’invidia. E purtroppo devo coltivare l’odio anche contro me stesso, per la mia incapacità di incidere anche solo minimamente su questa realtà che chiamare distopica è poco.
Dopo lo sfogo, torniamo al nostro autore, che certo non è tra i più conosciuti rappresentanti della letteratura francese. Traggo le note biografiche dalla bella prefazione a Biribi di Gianluca Reddavide e da altre fonti, tra le quali la solita Wikipedia.
Georges Darien, all’anagrafe Georges Hippolyte Adrien, nacque a Parigi nel 1862 in una famiglia di piccoli negozianti. Suo fratello minore Henry Gaston sarà un pittore di una certa notorietà. Sua madre muore quando ha solo sette anni: sarà cresciuto da una matrigna fervente cattolica, il che spiega – come fa notare la pagina di Wikipedia a lui dedicata – il suo viscerale anticlericalismo.
Poco si sa della sua giovinezza, se non che sviluppa sentimenti che potremmo definire anarco-individualisti. Nel 1881, anticipando la ferma obbligatoria che allora durava cinque anni, si arruola. Due anni dopo viene spedito, a causa della sua insofferenza per le regole militari, in Tunisia, in una compagnia disciplinare. Vi rimarrà trentatré mesi. Rilasciato (è il termine più appropriato) il 16 marzo 1886, torna a Parigi e inizia subito a scrivere Biribi, nel quale trasfonde tutto l’odio accumulato sul campo per l’istituzione militare, raccontando le inaudite angherie subite e le sofferenze dei soldati. Il manoscritto è terminato già nel 1888, ma l’editore si rifiuta di pubblicarlo, temendo conseguenze giudiziarie. Nel frattempo Darien pubblica un altro romanzo, Bas les cœurs!, nel quale denuncia la viltà di molti francesi, passati nel 1870 da un patriottismo di facciata alla collaborazione con il nemico. Solo due anni dopo – a seguito di un lavoro di revisione dell’autore, che ne attenua in parte il crudo linguaggio, e dopo che – all’inizio del 1890 – Lucien Descaves, autore del romanzo antimilitarista Sous-offs (I sottufficiali) e amico di Darien, è assolto dall’accusa di ingiuria all’esercito e oltraggio al pudore, Biribi viene dato alle stampe, corredato da una prefazione che suona quasi come una forzata ritrattazione; ha un grande successo e suscita un forte dibattito: il ministero della guerra è costretto a sopprimere le compagnie disciplinari (salvo ricostituirle subito dopo sotto altro nome), ma vieta l’affissione dei manifesti che annunciano l’uscita dell’edizione economica, costringendo l’editore a mandarla al macero.
Da notare, per capire il clima dell’epoca, che anche Descaves ha probabilmente dovuto emendare il linguaggio del suo romanzo, come si evince dal fatto che il titolo originale suonava Le Culs rouges.
Negli anni successivi Darien collabora a varie riviste anarchiche e ne fonda una, L’Escarmouche, di cui è l’unico redattore. A seguito della repressione degli anarchici dopo l’assassinio del presidente Sadi Carnot (1894) si rifugia a Londra, dove nel 1897 dà alle stampe il suo romanzo più noto, Il ladro, che avrebbe dovuto essere il primo tassello di una Comédie inhumaine in quattro volumi mai completata. Nel 1903 fonda e dirige un altro foglio anarchico, dal significativo nome di L’ennemi du Peuple, che l’editore chiude un anno dopo. Nel 1905 torna in Francia e si dedica a scrivere drammi teatrali, che suscitano scandalo tra i critici benpensanti. Si impegna anche in politica, candidandosi con scarsissimo successo ad alcune elezioni circoscrizionali, e nel dicembre 1909 fonda l’Unione sindacale degli artisti drammatici. Muore nel 1921.
Come accennato, Darien era un anarchico individualista, non credendo nel collettivismo socialista e nella lotta di classe: per lui la liberazione, l’abbattimento della società borghese doveva venire dal risveglio anche violento della coscienza del singolo: ”l’individualismo schiaccia le superstizioni, le inerzie, le menzogne, e se c’è il popolo dietro queste brutte cose, tanto peggio per il popolo”.
Le opere di Darien furono lodate da artisti come Alfred Jarry, Rachilde, André Breton, che anni dopo la sua morte scriverà: ”L’opera di Darien costituisce l’attacco più rigoroso che io conosca contro l’ipocrisia, l’impostura, la stupidità, la viltà”. Di lui Lucien Descaves disse: ”Era un uomo terribile. Ma era anche un grande scrittore”. E il fatto che fosse un grande scrittore emerge chiaramente, a mio avviso, leggendo Biribi.
Prima però una spiegazione sul titolo. Biribi è il nome con il quale nel gergo dei soldati venivano chiamate le compagnie disciplinari stanziate nelle colonie francesi dell’Africa del Nord. Deriva, secondo lo storico Dominique Kalifa, da un gioco d’azzardo di origine italiana, il Biribisso, molto diffuso nel XVIII e XIX secolo.
Come risulta chiaro da quanto sin qui detto, Biribi è innanzitutto un romanzo di denuncia, quello che oggi potrebbe chiamarsi un instant book. In quanto tale, riferendosi ad una istituzione ormai scomparsa come le compagnie disciplinari, verrebbe da pensare che abbia ormai da tempo esaurito la sua funzione. Invece non è così, fondamentalmente per due motivi.
Il primo attiene al fatto che – pur se (forse) oggi non sono più nemmeno immaginabili l’arbitrio e le torture che caratterizzavano i reparti punitivi degli eserciti, le ragioni dell’antimilitarismo di Darien sono ancora tutte lì: l’assolutismo della via gerarchica che porta inevitabilmente alla stupidità, la necessità intrinseca in una tale organizzazione di reprimere preventivamente qualsiasi forma di dissenso, la separatezza rispetto alle istituzioni civili, che conduce spesso a corruzione ed abusi, lungi dallo scomparire si sono solo specializzate con l’avvento degli eserciti professionali, essendo venuta meno la loro funzione storica di irreggimentazione giovanile delle masse popolari, sostituita dalla fornitura ai dipendenti di competenze più qualificate e meglio remunerate di un tempo per l’efficiente uccisione di altri esseri umani. Il secondo motivo per cui Biribi è ancora oggi un libro da leggere è dato dalla sapiente costruzione del romanzo, supportata da una prosa e da un linguaggio talmente potenti da risultare di una sconcertante modernità.
Biribi è narrato in prima persona da Jean Froissard, diciannovenne parigino, che di fatto scrive in presa diretta al presente indicativo, alternando dialoghi diretti a riflessioni personali. Il lettore lo incontra nel momento in cui esce dall’ufficio di reclutamento e raggiunge il padre, che lo ha atteso fuori: nel breve dialogo che segue emerge tutta l’incomunicabilità tra i due. Jean si reca quindi in casa di uno zio per comunicare la notizia, ricevendo dai bigotti parenti solo predicozzi moralisti sul fatto che la disciplina militare lo avrebbe salvato da un’incipiente depravazione di cui già si intravedevano tutti i segni. Ecco il modo a mio avviso strepitoso con il quale Darien presenta la famigliola: “Mio zio è un distributore di morale. Un distributore di morale vecchio tipo, con un cilindro apostolico, un pistone proud’hommesco, una valvola sistema Guizot e una valvola sistema Berquin. Mia zia invece non moraleggia per suo conto. Ma quando suo marito dogmatizza, lei approva. E mia cugina ratifica”. Azzardo (ma forse non troppo): un tale linguaggio, a mio avviso inusitato per un romanzo scritto prima del 1890, potrebbe essere quello usato, oltre un sessantennio dopo, da un certo Holden Caulfield, che guarda caso all’inizio del romanzo di cui è protagonista riceve una predica dal suo professore. Per inciso, il passo mi permette di far notare quelle che ritengo essere alcune lacune della pur ottima edizione: la prima è la mancanza di note. Il testo contiene molti riferimenti a personaggi francesi poco noti al pubblico italiano, come pure molti termini militari, di gergo soldatesco e di derivazione araba. Sarebbe stato il caso di facilitarne la piena comprensione con un adeguato apparato di note, senza costringere il lettore a cercare chi siano Guizot e Berquin oppure cosa sia un marabutto. Inoltre la traduzione a volte risulta inadeguata a rendere il senso compiuto voluto dall’autore. Nel caso del passo sopra citato, il curatore traduce con distributore di morale l’originale pompe à morale, in cui il sostantivo pompe si accorda molto meglio alla descrizione del meccanismo che segue. Tale inadeguatezza si sente soprattutto nel nomignolo collettivo che i camisards, i soldati/reclusi, hanno affibbiato agli odiati graduati, cinghie di trasmissione della crudeltà degli ufficiali che mettono nel loro lavoro una buona dose di personale sadismo. Costoro vengono chiamati pied-de-banc, probabilmente con riferimento al fatto che sono passivamente sottomessi ai loro superiori. Reddavide traduce questa locuzione come zampa-di-panca, espressione senza senso in italiano che fa perdere il significato dell’originale. Meglio sarebbe stato, a mio avviso, lasciare la locuzione inalterata, come fatto per camisards. Oltre a ciò nel testo si trovano alcuni errori di battitura: si tratta però di lacune veniali, che nulla tolgono al valore di questo volume, oggi purtroppo reperibile con difficoltà.
Tornando brevemente alla trama, resta da dire che dopo alcuni mesi a Nantes e quasi un anno a Vincennes, Jean Froissard, secondo il furente capitano che lo redarguisce per l’ennesima volta, non è un soldato: è un disgraziato (Commento di Froissard: ”Avevo creduto sin lì che i due termini fossero sinonimi. Sembra di no”.) Ha passato buona parte del suo tempo in punizione, perché non riesce proprio a calarsi nel personaggio del soldato che obbedisce senza pensare alla stupidità della vita che conduce e degli ordini che gli vengono dati. Passa per un insolente, una testa calda, e viene trasferito a Le Kef, in Algeria, inizialmente in un reparto regolare, dove ha modo, tra l’altro, di scoprire la vera faccia del colonialismo, grazie al quale poche aziende private stanno facendo grandi affari ovviamente depredando il paese, ma anche illudendo e sfruttando i coloni francesi. Al primo sgarro, in considerazione del suo curriculum pregresso, la Commissione di guerra lo assegna a Biribi. E qui comincia veramente il romanzo, nel quale Froissard/Darien racconta le continue vessazioni e torture cui sono sottoposti i soldati, la fame e la sete indicibili, le morti per pestaggio, per inedia, per dissenteria o per fatica, il meschino potere arbitrario esercitato da ufficiali frustrati e graduati servili e sadici, la solidarietà tra i soldati ma anche lo spionaggio vigliacco di molti, la corruzione imperante, il bisogno imperioso e continuamente insoddisfatto di sesso che porta all’omosessualità forzata. Per Jean sarà una crudele e macabra scuola di formazione, perché imparerà ad odiare, perché imparerà cosa è veramente l’esercito. Lo lasceremo trentatré mesi dopo, ad una stazione di Parigi, mentre rifiuta – come faranno i compagni con cui ha fatto il viaggio di ritorno – di iniziare l’opera di mitizzazione degli orrori che ha vissuto e prepara la sua vendetta: ”Voglio vendicarmi? Si, se vendicarsi è aprire davanti a tutti il libro dell’esistenza, mostrare quanto si è sofferto, dire quello che si è pensato. Voglio farlo ora. Se è vendetta, tanto peggio; e se è giustizia, tanto meglio”. La vendetta sarà questo libro, un libro potente, la cui forza sta nella dimostrazione che Biribi non è una aberrazione del sistema, è il sistema, ancora oggi, e l’unica possibilità che abbiamo è distruggerlo. Sicuramente oggi questo sistema si esprime in forme più raffinate, ma sinché non avremo la piena coscienza che Abu Ghraib e le sale da cui bombe intelligenti vengono guidate per colpire civili a migliaia di chilometri di distanza sono la stessa cosa, sinché, tanto per iniziare, non ci depureremo dal linguaggio tossico dell’esportazione della democrazia, delle missioni umanitarie, dei danni collaterali, dei nostri valori e ricominceremo a chiamare le cose col loro nome, Biribi sarà sempre dentro di noi, come ci insegna questo splendido romanzo.

Autore:

Bibliofilo accanito, ora felicemente pensionato

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