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Per quanto a nord tu sia nato, sei sempre il terrone di qualcun altro

NelBoscoRecensione di Nel bosco, di Thomas Hardy

Fazi, Tascabili, 2003

Nel bosco è la traduzione italiana, secondo me approssimativa, del titolo del romanzo The Woodlanders, uscito originariamente a puntate sul mensile letterario Macmillan’s Magazine tra il maggio 1886 e l’aprile successivo, e pubblicato in tre volumi subito dopo. Nella cronologia dei romanzi di Hardy si colloca dopo Il sindaco di Casterbridge e prima di Tess dei d’Urberville, situandosi quindi nel periodo di massima qualità della sua produzione in prosa, che si sarebbe conclusa presto con Jude l’oscuro. The Woodlanders figura tra i Novels of character and environment, quelli che l’autore riteneva di maggior rilevanza artistica; egli lo amava particolarmente, tanto che ancora nel 1912 scrisse: ”avendolo riletto dopo molti anni mi è piaciuto soprattutto per la storia”.
Tornando al titolo, vi è da dire che la sua traduzione in italiano non si presenta facile: quella più ovvia, gli abitanti del bosco o della foresta non riesce infatti a rendere perfettamente lo status dei protagonisti, che non abitano nella foresta, ma ai suoi margini, e semmai traggono dalla foresta – oltre che i loro mezzi di sostentamento – anche il loro character. È però a mio avviso indubbio che Nel bosco fa perdere del tutto l’evocatività del titolo originale, soprattutto perché nasconde il fatto essenziale che il libro si interessa di una piccola comunità umana: forse, non fosse per il fatto che il termine denota una precisa professione, una possibile buona traduzione potrebbe essere I boscaioli.
Il romanzo narra infatti le vicende degli abitanti di Little Hintock, piccolo e sperduto villaggio situato ai margini di una vasta area boschiva, tra coltivazioni di meli, nel sudovest dell’Inghilterra. Siamo nel cuore del Wessex, la regione rurale nella quale sono ambientate molte delle storie narrate da Hardy. Wessex è l’antico nome di una regione dai confini non ben definiti, delimitata grossomodo da Bristol e Bath a nord, dalla linea che unisce Oxford a Southampton a est e dalla costa della Manica sino a Plymouth a sud e corrispondente oggi alle contee del Dorset, dello Wiltshire, del Somerset, del Devon, dell’Hampshire, oltre a parti del Berkshire e dell’Oxfordshire. È una delle regioni più cariche di storia della Gran Bretagna: entro i suoi confini si trovano tra l’altro il complesso megalitico di Stonehenge e i meravigliosi geoglifi di Uffington e Cerne Abbas; numerosi insediamenti che chiudono il loro nome con il suffisso -chester (da castrum) testimoniano come essa sia stata uno dei fulcri della colonizzazione romana dell’isola; molte città conservano preziosi centri storici medievali e numerose sono i resti di abbazie che punteggiano il paesaggio. Ancora oggi la regione presenta, soprattutto all’interno, un carattere essenzialmente rurale, essendo sfuggita alle ondate di industrializzazione succedutesi a partire dal XVIII secolo. Hardy ne ha fatto una regione dell’anima, nella quale si ritrovano le dinamiche sociali e psicologiche che è interessato a mettere in luce nelle sue opere, e che per lui assumono un carattere universale. Ecco cosa afferma in proposito nella Prefazione generale all’edizione Wessex (traduzione mia): “A volte si ritene che i romanzi che sviluppano la loro azione nell’ambito di una scena circoscritta – come fanno molti di questi (sebbene non tutti) – non possano essere tanto esaustivi nell’analizzare la natura umana quanto i romanzi le cui ambientazioni spaziano lungo vaste estensioni del paese, i cui eventi interessano paesi e città, riguardando a volte i quattro quarti del globo. Non mi preoccupa discutere ulteriormente questo punto, se non per suggerire che tale concezione non è vera rispetto alle passioni elementari. Vorrei però affermare che i limiti geografici delle loro ambientazioni non sono stati assolutamente imposti all’autore da mere circostanze; egli le ha imposte a se stesso sulla base di un giudizio. Ritenevo che la nostra splendida eredità nella letteratura drammatica, risalente ai Greci, potesse trovare sufficiente spazio in un’area non molto più grande della mezza dozzina di contee qui riunite sotto l’antico nome di Wessex; che le emozioni interiori abbiano pulsato nei reconditi angoli del Wessex con la stessa intensità che nei palazzi d’Europa, e che, in ogni caso, nel Wessex ci fosse sufficiente natura umana per soddisfare le finalità letterarie di uno scrittore”.
Il Wessex come microcosmo rappresentativo dell’universo sociale e umano, quindi, ed anche, grazie alla sua arretratezza, luogo in cui le passioni elementari possono emergere ad un livello più puro”.
Sempre nella Prefazione generale Hardy informa del modo in cui ha ridisegnato la toponomastica della regione, mantenendo i nomi delle grandi città ai suoi confini (Bristol, Bath, Plymouth, Southampton) e dello sfondo topografico (alture, fiumi, valli) e rinominando invece tutti gli insediamenti umani al suo interno; molti esegeti si sono esercitati nel corso del tempo a riconoscere i luoghi in cui sono ambientati i romanzi del Wessex, e lo stesso Hardy ci fornisce un campione di questo esercizio, dai quali si evince ad esempio che la città in cui è ambientato gran parte de Il sindaco di Casterbridge corrisponde effettivamente a Dorchester. Tenterò di farlo anch’io riguardo ai luoghi in cui si svolge Nel bosco, perché senza dubbio è un esercizio divertente e di indubbio fascino.
Nell’incipit del romanzo Hardy fornisce al lettore alcuni precisi indizi: ”Il viaggiatore che per qualche antico legame dovesse percorrere la vecchia strada carrabile che traccia un linea quasi meridiana da Bristol fino alla costa meridionale dell’Inghilterra, a metà del cammino si troverebbe in prossimità di certe vaste distese di boschi, cosparse di campi di meli”. Più avanti, viene detto che una carrozza unisca i centri di Sherton e Abbot’s Cernel, che nella toponomastica del Wessex sappiamo corrispondere rispettivamente alle cittadine di Sherborne e Cerne Abbas, nel Dorset, distanti tra loro poco più di dieci miglia, come indicato nel romanzo. Circa a metà strada tra loro si trova effettivamente una estensione boschiva, detta >i>Greenfield forest, ai cui margini occidentali sorge il piccolo villaggio di Hermitage, probabilmente preso a modello da Hardy per Little Hintock. Di meleti, se mai ve ne sono stati, nell’area oggi non v’è traccia.
Vi è comunque da aggiungere che Hardy si diverte, nella sua prefazione all’edizione del 1912 del romanzo, a confessare che egli stesso non sa dire dove si trovi il villaggio, e che una volta passò molte ore in bicicletta in compagnia di un amico per cercarlo, non riuscendovi.
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La storia di un uomo di carattere

IlSindacodiCasterbridgeRecensione de Il sindaco di Casterbridge, di Thomas Hardy

Rizzoli, BUR Classici moderni, 2007

Questo blog, sul quale mi diverto a riportare i commenti alle mie letture, ha purtroppo anche la capacità di ricordarmi l’inesorabile passaggio del tempo. Capita ormai di frequente, infatti, che debba scrivere di un autore di cui mi sia già occupato in passato, e che andando a rileggere quanto già scritto mi renda conto di quanto tempo sia nel frattempo passato.
È il caso di Thomas Hardy, la cui mia unica lettura precedente, Tess dei d’Urberville, ho visto con un certo sgomento risalire ad ormai dieci anni fa, mentre nel mio inconscio la ritenevo lettura abbastanza recente. In questi dieci anni sono accadute molte cose, e se a livello personale posso dire che tutto sommato il bilancio non è negativo, alzando lo sguardo dal mio ombelico ed osservando il mondo ed il mio Paese mi sento di dire con nettezza che mai avrei immaginato si potessero raggiungere gli abissi di degrado politico, sociale, civile e delle coscienze cui stiamo assistendo, che – ne sono convinto – ci porteranno presto alla catastrofe, cui stiamo andando incontro ormai intontiti dalla più bieca propaganda spacciata per informazione e con una leggerezza tale da far impallidire (facendo ricorso ad una abusata ma efficace metafora) le ultime ore del Titanic. Ma tant’è. Non resta che sperare che la catastrofe prossima ventura porti almeno alla completa estinzione della nostra specie, risultato di un imperdonabile errore del processo di selezione naturale.
Nell’attesa, mi dedicherò al commento di ben cinque opere di Hardy, iniziando da una delle più significative: Il sindaco di Casterbridge.
Il romanzo fu pubblicato a partire dal gennaio 1886 in dispense settimanali, e nel maggio dello stesso anno comparve in due volumi. Hardy, all’epoca quarantaseienne, aveva alle spalle la pubblicazione di altri nove romanzi, in generale accolti tiepidamente dalla critica e dal pubblico: ne avrebbe scritti altri quattro nei successivi nove anni, per poi dedicarsi – sino alla morte che lo colse nel 1928 – quasi esclusivamente alla poesia. Come noto, le ragioni che lo spinsero ad abbandonare la scrittura in prosa sono da ricercarsi nelle polemiche, anche familiari, che seguirono l’uscita di Jude l’oscuro (1895): ma di questo a suo tempo.
Nell’edizione originale Il sindaco di Casterbridge ha come titolo completo The Life and Death of The Mayor of Casterbridge: A Story of a Man of Character; l’edizione italiana da me letta, di fatto l’unica ancora oggi disponibile, che riprende, anche tipograficamente, quella originale del 1953, restringe il titolo: non si tratta di un peccato grave, anche se non permette al lettore di entrare nello spirito del romanzo da subito. Più grave è invece a parer mio il fatto che sia stata omessa anche la prefazione dell’autore all’edizione del 1895 del romanzo – invece puntualmente riportata in quasi tutte le edizioni in lingua originale che ho potuto consultare – nella quale egli in qualche modo risponde alle critiche rivoltegli rispetto alla scarsa verosimiglianza della parlata scozzese di uno dei protagonisti, Donald Farfrae, asserendo di non aver voluto tanto riprodurre lessicalmente l’inflessione scozzese, quanto di averla resa nei termini in cui un ascoltatore meridionale l’avrebbe percepita. Questa precisazione indica quanto l’autore fosse sensibile al realismo della sua prosa. Sempre dalla prefazione veniamo anche a sapere che il romanzo pubblicato a dispense era monco di un capitolo, recuperato nell’edizione in volume. Anche la produzione artistica di Hardy è dunque stata condizionata dalle esigenze dell’industria culturale inglese dell’epoca, come confermato dallo stesso autore nella Prefazione generale all’edizione Wessex del 1912, che raccoglie le sue opere ambientate in tale regione del sud-ovest dell’Inghilterra. Nelle prime righe di questo importante documento, sul quale tornerò nel corso dei prossimi commenti alle sue opere, Hardy infatti afferma, quasi a scusarsi di una asserita scarsa qualità dei suoi romanzi: ”A volte l’intento [della scrittura] era meno elevato; altre volte, in cui l’intenzione era particolarmente elevata, la forza delle circostanze (tra le quali le principali consistevano nelle necessità legate alla pubblicazione su riviste) mi costringevano a una modifica, grande o piccola, del piano originario”. Poco oltre egli procede anche ad una sorta di classificazione dei suoi romanzi, suddividendoli in tre gruppi che in qualche modo ne indicano l’ordine di rilevanza artistica.
Chiama il primo gruppo Novels of character and environment, ed in esso include ”[i romanzi] che si avvicinano molto ad essere opere non soggette ad influenze [uninfluenced works] e uno o due [romanzi] che, qualunque sia la qualità di alcuni dei loro episodi, possono rivendicare una verosimiglianza nella cura generale e nei dettagli”; il secondo gruppo è quello dei Romances and fantasies, che ritiene ”una definizione sufficientemente descrittiva”, mentre l’ultimo gruppo è quello dei Novels of ingenuity, romanzi che mostrano ”un non infrequente disprezzo per ciò che è probabile nella catena degli eventi e il cui interesse dipende in larga parte da singoli episodi. Potrebbero anche essere definiti ‘esperimenti’ e furono scritti solamente per il momento, anche se, nonostante l’artificiosità della narrazione, alcune scene non sono prive di fedeltà alla vita”. Hardy non elenca i romanzi che ricadono nelle tre classi, ma chi fosse interessato può trovarli nella voce di Wikipedia in lingua inglese dedicata all’autore; tutti i suoi romanzi giudicati ancora oggi maggiori ricadono nella prima classe, e tra questi vi è anche Il sindaco di Casterbridge.
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Hammett riabilitato (ai miei occhi)

LaChiavediVetroRecensione de La chiave di vetro, di Dashiell Hammett

Guanda, Le Fenici tascabili, 2004

Quando, ormai quattro anni fa, commentai la lettura di Piombo e sangue, primo romanzo di Dashiell Hammett, non nascosi la mia delusione per non avervi ritrovato, se non in piccola parte, i marchi di fabbrica dell’autore, consistenti principalmente nel realismo delle storie raccontate, delle ambientazioni e dei personaggi che vi erano coinvolti. Le troppe morti gratuite, l’inverosimiglianza di alcune situazioni e l’approssimazione con cui erano tratteggiati i personaggi mi avevano fatto pensare ad una prevalenza delle necessità commerciali su quelle artistiche. La recente lettura di La chiave di vetro mi ha invece restituito quello che probabilmente è il vero Hammett, un autore che, pur essendo indubitabilmente di genere, è stato in grado di rinnovare profondamente il poliziesco, contribuendo in maniera determinate – accanto ad altri autori della sua epoca sulle due sponde dell’Atlantico – a conferirgli una precisa dignità letteraria.
Hammett scrisse solo cinque romanzi, tutti editi nel quinquennio che va dal 1929 al 1934; all’anteguerra, e precisamente agli anni tra il 1922 e il 1939, risalgono anche gli ottantaquattro racconti da lui pubblicati e le sette sceneggiature per film scritte. Molteplici sono le cause del sostanziale silenzio dello scrittore dagli anni ‘40 sino al 1961, anno della morte: innanzitutto la guerra – si arruolò ormai quarantottenne, venendo comunque emarginato dall’esercito in quanto comunista – quindi negli anni successivi la dura discriminazione subita sotto il maccartismo, che lo portò anche in prigione, nonché vari problemi di salute e infine l’alcolismo.
La chiave di vetro è il suo quarto romanzo: uscì in volume nel 1931 dopo essere apparso a puntate l’anno precedente sulla rivista Black Mask. Ne è protagonista Ned Beaumont, amico e consigliere del boss Paul Madvig, che controlla l’anonima città in cui si svolgono le vicende narrate. Una prima sostanziale differenza rispetto a Piombo e sangue è data dalla scrittura in terza persona: mentre Continental Op, il detective privato protagonista dei primi due romanzi di Hammett, narra egli stesso i casi in cui è stato coinvolto, in La chiave di vetro lo scrittore riprende la narrazione in una terza persona asettica e oggettiva che aveva già utilizzato ne Il falcone maltese, suo precedente romanzo. Vedremo come tale modalità di scrittura costituisca, a mio avviso, uno degli assi portanti del fascino di questo romanzo, che inizia in media res: non vi sono spiegazioni su chi siano i personaggi, sulle loro relazioni e su cosa sia accaduto in precedenza; spetterà al lettore costruirsi tassello dopo tassello il quadro della situazione basandosi sugli indizi che raccoglierà dai dialoghi tra i personaggi e dalle loro azioni.
I fatti narrati si svolgono in poche settimane, in un anno imprecisato durante il proibizionismo. Ned Beaumont è un trentenne che da circa un anno si è trasferito in città; vive solo, non ha relazioni sentimentali e gli piace giocare d’azzardo e puntare grosse somme sui cavalli; è come detto il braccio destro di Paul Madvig, capo di una organizzazione criminale che controlla la città – nella quale gli esegeti hanno facilmente identificato Baltimora, in cui Hammett visse in gioventù. Madvig, quarantacinquenne di umili origini che vive con una madre premurosa e una figlia ventenne di nome Opal, gestisce molti locali clandestini ma soprattutto ha a suo libro paga gli amministratori e il procuratore della città, accaparrandosi gli appalti pubblici più importanti. In vista delle nuove elezioni, sta muovendosi per assicurare agli uomini di sua fiducia i voti necessari alla loro riconferma, in contrapposizione ai politici controllati dal suo rivale, un boss di origini irlandesi. Inoltre, per essere ammesso nella buona società cittadina, pensa di sposare Janet Henry, figlia del senatore locale, un suo uomo. Un delitto sconvolge però la routine preelettorare del clan di Madvig: una sera, in una strada poco lontana da uno dei locali del boss, viene trovato morto, ucciso con un colpo alla testa, Taylor Henry, fratello di Janet e ragazzo di Opal Madvig: del delitto viene sospettato Paul Madvig, che per questo rischia la pena capitale, soprattutto se la città passerà sotto il controllo dei suoi avversari. Spetterà a Ned Baumont indagare e tentare di risolvere il caso per allontanare i sospetti da Madvig.
Una prima osservazione riguarda il fatto che La chiave di vetro presenta a prima vista una struttura da giallo classico: c’è un ordine pregresso, descritto (o meglio tratteggiato) nelle prime pagine, che viene alterato da un delitto, c’è un detective (sia pure in questo caso improvvisato) che indaga e grazie alla sua perspicacia nelle ultime pagine il lettore scopre la verità. Su questo collaudato tema Hammett innesta però alcune variazioni importanti, tali da renderlo irriconoscibile e farne altra cosa. Innanzitutto la situazione ante delitto è tutto fuorché ordinata. La città è corrotta e violenta, e due burattinai senza scrupoli, Paul Madvig e il suo rivale Shad O’Rory, manovrano le leve del potere politico e giudiziario per tutelare i propri interessi ed incrementare i propri profitti illegali. La stampa, lungi dall’essere il mitizzato cane da guardia della democrazia è collusa ed al servizio delle fazioni in lotta; lo stesso rito fondante della democrazia, le elezioni, si riducono alla compravendita al miglior offerente di pacchetti di voti controllati da personaggi di secondo livello nella ferrea gerarchia del potere. Il delitto non sconvolge quindi un ordine civico e morale preesistente, ma semplicemente rischia di compromettere il potere di un gangster, ed è solo per evitare ciò che Ned Beaumont se ne interessa: nelle sue azioni, così come nella sua personalità complessiva, non vi è alcuna spinta di carattere ideale, se si esclude quella data dalla sua amicizia con Madvig, che comunque sarà oggetto di una profonda e progressiva rivisitazione critica durante il romanzo. Inoltre il nuovo ordine che si stabilisce al termine del romanzo è profondamente diverso da quello originario: ciò che è accaduto non permette che tutto torni come prima, e il tocco di ambiguità che caratterizza il finale, in qualche modo aperto, ne costituisce uno degli elementi di maggiore originalità.
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“Ricominciamo da capo. Non ci arrendiamo”: l’ingenuità di un intellettuale libertario

IlPomeriggiodiunPiastrellistaRecensione de Il pomeriggio di un piastrellista, di Lars Gustafsson

Guanda, Le Fenici tascabili, 2000

Sono solito criticare l’editoria italiana, che a mio avviso in questi ultimi decenni ha subito un’involuzione – dovuta alla completa sottomissione alle regole del mercato – che ne ha fortemente limitato la funzione di essenziale stimolo alla crescita civile del Paese. In realtà ciò è vero soprattutto per la grande editoria, quella che un tempo contribuì a formarne l’identità culturale. Esiste per fortuna anche un’editoria media e piccola che in molti casi si è scavata una propria nicchia basata sull’originalità e la qualità delle proposte.
Un esempio di editoria di qualità è a mio avviso la casa editrice Iperborea, fondata alla fine degli anni 80 a Milano e specializzatasi nella pubblicazione di autori scandinavi ed in genere nordeuropei, sia classici sia contemporanei. I suoi eleganti libri, lunghi e stretti e dalla copertina ruvida, sono ormai parte integrante del panorama degli scaffali delle librerie italiane, e chiunque abbia la curiosità di conoscere autori nordici non può che scorrere i suoi titoli.
Anche se il breve romanzo oggetto di queste note è stato da me letto nell’edizione Guanda del 2000, esso fu pubblicato su licenza di Iperborea, che lo aveva dato alle stampe otto anni prima: è quindi a questa casa editrice che si deve la vera paternità italiana dell’opera. Del resto, se per Guanda si è trattato di un episodio editoriale che non ha avuto continuità, dato che oggi nessun libro di Gustaffson si trova nel suo catalogo, Iperborea ha dedicato negli anni una speciale attenzione a questo importante autore svedese, pubblicando una dozzina dei suoi romanzi, che peraltro costituiscono solo una minima parte dell’imponente produzione letteraria di Gustafsson, fatta – oltre che di romanzi e racconti, anche di molti volumi di poesie e saggi letterari e filosofici.
Lars Gustafsson nacque nel 1936 a Västerås, città non lontana da Stoccolma. Laureatosi a Uppsala in filosofia, si dedicò alla carriera accademica, cui affiancò sin da giovane la produzione letteraria. Dal 1962 fu per dieci anni direttore della rivista letteraria svedese Bonniers Litterära Magasin; dopo alcuni anni passati a Berlino, nel 1983 si trasferì in Texas, insegnando all’Università di Austin sino al 2006, quando andò in pensione e tornò in Svezia. Morì a Stoccolma nel 2016.
Gustafsson si è sempre definito essenzialmente un filosofo, che ha usato la letteratura e la poesia per esprimere le sue idee. Sostenitore di un liberalismo radicale, fu molto critico nei confronti del sistema di protezione sociale costruito nel dopoguerra dalla socialdemocrazia svedese, che definiva un totalitarismo morbido. Nel 2009 dichiarò il suo appoggio al Partito Pirata, che si proponeva di liberare la rete da ogni controllo e lottava contro il copyright e i contenuti a pagamento, salvo ritrarsi quando il partito appoggiò le rivelazioni di Wikileaks.
Forse il contributo più importante lasciatoci dal pensiero di Gustafsson è il concetto di Problemformuleringsprivilegiet, traducibile con Privilegio di formulazione del problema, da lui enunciato nel saggio Per il liberalismo del 1980 e ulteriormente sviluppato nel 1989. Ripreso dal concetto gramsciano di egemonia culturale, il Problemformuleringsprivilegiet è il potere che alcuni soggetti hanno di stabilire l’ordine del giorno del dibattito pubblico indicando gli oggetti della discussione e di condizionare la visuale da cui questi vengono traguardati. In questo modo anche le eventuali soluzioni date ai problemi saranno a vantaggio di chi ha il potere di formularli.
Dato il sostrato culturale e politico di Gustafsson il concetto nacque per criticare l’egemonia che il Partito socialdemocratico e i suoi apparati di propaganda esercitavano sulla società svedese, e più in generale per sottolineare la pervasività degli apparati statali nella società dell’epoca (il celebre dalla culla alla bara). In particolare Gustafsson utilizzò il concetto per criticare il sostegno pubblico alla produzione poetica e letteraria in genere, che a suo dire avrebbe portato ad opere non in sintonia con il gusto del pubblico e ad autori non indipendenti, favorendo nel tempo il dilettantismo letterario.
Da buon liberista-libertario Gustafsson probabilmente pensava che la riduzione della presenza dello Stato nella vita dei cittadini avrebbe portato ad una maggiore libertà individuale, e che il dibattito pubblico avrebbe potuto svilupparsi senza precondizionamenti imposti dall’alto attraverso l’esercizio del Problemformuleringsprivilegiet; l’involuzione sociale cui abbiamo assistito in questi decenni mi porta a dire che anche grazie all’ingenuità di utili idioti come Gustafsson (uso questo epiteto in termini affettuosi) i problemi non si sono risolti con la ritirata del potere pubblico, anzi. Oggi il Problemformuleringsprivilegiet è infatti ancora lì, molto più pericoloso di quanto fosse nel secolo scorso, in quanto i soggetti che hanno il potere di stabilire l’ordine del giorno del dibattito pubblico sono in gran parte soggetti privati, che controllano ed indirizzano i flussi informativi essendo al riparo da qualsiasi forma di controllo democratico e servendosi dell’autorità pubblica per curare i propri interessi. Il Privilegio di formulazione del problema è diventato framing, capacità da parte dei detentori del potere reale di circoscrivere l’oggetto ed i termini del dibattito, sino a giungere ormai a far uso della più sfacciata propaganda. Se ripensiamo ai grandi temi dibattuti nel nostro Paese negli ultimi anni – quali il debito pubblico e la pandemia, le pensioni e le attuali guerre – a come questi temi sono stati selezionati a seconda del momento, alle prospettive da cui sono stati e vengono presentati, non possiamo non concludere che Gustafsson ha posto un problema di grande rilevanza, traguardandolo però anch’egli da una prospettiva errata. Concedendogli il beneficio dell’ingenuità – a mio avviso resa palese dall’appoggio ad un partito improbabile come quello dei Piraten – si può dire che non abbia capito che la minimizzazione dello Stato e in generale del potere pubblico non avrebbe portato alla liberazione dell’individuo, ma semplicemente all’occupazione sempre più oppressiva del potere da parte dei grandi interessi organizzati ed in definitiva alla progressiva riduzione degli spazi democratici, cosa del resto da sempre auspicata dai cosiddetti liberali, soprattutto di casa nostra.
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Un colpo al cuore della ‘polonità’ (ma non definitivo)

Trans-AtlanticoRecensione di Trans-Atlantico, di Witold Gombrowicz

Feltrinelli, Universale economica, 2005

Termino con questo breve romanzo la mia lettura di opere di Witold Gombrowicz, iniziata molti anni fa con Cosmo, ultimo dei suoi romanzi, e proseguita nel maggio del 2020 con le altre sue prove più significative: i racconti giovanili di Bacacay, il bel Ferdydurke e il meno convincente (a mio avviso) Pornografia. Nessun altro suo libro compare nella mia biblioteca, e non credo ne acquisterò più, in quanto tutto sommato considero Gombrowicz– come ho avuto modo di far notare nelle mie precedenti note – un autore sicuramente importante, ma non capitale.
Devo tuttavia dire che termino in bellezza: Trans-Atlantico è a mio modo di vedere – tra quelli che ho letto – il romanzo più godibile, divertente e probabilmente – come ebbe modo di dichiarare egli stesso – più coraggioso di Gombrowicz.
Il romanzo uscì a Parigi, nelle edizioni dell’emigrazione polacca, nel 1952, e sette anni dopo sarebbe comparso anche in Polonia. Dal 1939 lo scrittore viveva in Argentina: era giunto a Buenos Aires alla fine di agosto, a bordo della motonave Chrobry, partita da Gdynia per il suo viaggio inaugurale con a bordo una delegazione ufficiale in visita alla colonia polacca di Buenos Aires; Gombrowicz, che aveva già acquistato una certa notorietà grazie alla pubblicazione di Ferdydurke, riuscì a farne parte, essenzialmente perché intendeva sfuggire all’arruolamento. Come noto, i tedeschi invasero la Polonia il primo settembre, subito dopo il suo sbarco in Argentina. La nave, non potendo rientrare in Polonia, ripartì alla volta della Gran Bretagna, ma Gombrowicz decise di restare in Sudamerica. Vi sarebbe rimasto sino al 1963, per poi trasferirsi in Provenza. Trans-Atlantico narra proprio l’arrivo e i primi mesi di Gombrowicz in Argentina. È dunque un romanzo in qualche modo autobiografico, come sottolineato anche dal fatto che il protagonista ha il nome dell’autore, ma i fatti narrati attorno a questa fondamentale tappa della sua vita sono (ovviamente, come si intuisce leggendo) di fantasia; lo fa del resto notare lo stesso Gombrowicz nella prefazione all’edizione polacca del 1957: ”tutto è inventato ed ha legami molto blandi con l’Argentina vera e con la vera colonia polacca di Buenos Aires. Anche la mia ‘diserzione’ in realtà era stata diversa”.
La prefazione è preziosa anche perché, come accade in altre sue opere, tramite essa l’autore si propone di spiegare al pubblico polacco il senso del romanzo. Sin da subito egli infatti mette in guardia da una interpretazione troppo angusta e superficiale, che fa del romanzo una satira della Polonia prebellica. Semmai, egli afferma, il romanzo ”è anche, tra l’altro, una intensa resa dei conti… non con una Polonia particolare, beninteso, ma con quella Polonia creata dalle condizioni della sua esistenza storica e dalla sua dislocazione nel mondo […] è una nave corsara che contrabbanda un forte carico di dinamite, con l’intento di far saltare in aria i sentimenti nazionali finora vigenti da noi. Anzi, esso cela nel suo interno una esplicita proposta che riguarda quel sentimento: superare la ‘polonità’. […] Infine, la cosa più importante: conquistiamoci la libertà nei confronti della forma polacca; pur restando polacchi, cerchiamo però di essere qualcosa di più ampio e di superiore al polacco!”.
Gombrowicz mette quindi al centro del romanzo il suo contrabbando ideologico, come lo definisce. Al tempo stesso, molto lucidamente, mette in guardia dall’interpretarlo come un romanzo a tesi, lanciando al contempo una stoccata al realismo socialista, che presumibilmente in Polonia all’epoca rivestiva un ruolo culturale importante: ”Può l’arte essere trattata come un compito su un argomento dato? Immagino che si tratti di una domanda tempestiva – temo infatti che la critica letteraria in Polonia non si sia ancora liberata dalla mania social-realista di esigere «l’arte su ordinazione». No, Trans-Atlantico non contiene alcun tema imposto, all’infuori della storia che vi è narrata. Non è altro che un racconto, un mondo raccontato – il quale avrà una validità soltanto a condizione di apparire allegro, multicolore, rivelatore e stimolante – qualcosa insomma che luccica, che brilla e che rispecchia una moltitudine di significati”.
Egli tocca qui un punto essenziale, sul quale concordo pienamente: un’opera d’arte è tale se la sua forma rispecchia un contenuto adeguato, se trasmette messaggi che possono essere interpretati dal fruitore secondo la propria sensibilità ed i propri interessi culturali e politici.
Ed indubbiamente Trans-Atlantico non è avaro quanto a temi trattati e molteplicità di significati, per analizzare i quali è utile riassumerne per sommi capi la strampalata trama e accennare ai personaggi che vi si incontrano.
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Primo assaggio di uno scrittore sicuramente importante

IlGiornodelSilenzioRecensione de Il giorno del silenzio, di George Gissing

Marlin, I lapilli, 2008

George Gissing non è autore molto frequentato nel nostro paese. Dei ventitré romanzi che scrisse, solo alcuni sono stati tradotti nella nostra lingua. La sua opera che ha avuto maggior successo editoriale da noi è By the Ionian Sea, resoconto di un viaggio compiuto nel 1897 nell’Italia meridionale alla ricerca dei luoghi della Magna Grecia, pubblicato originariamente nel 1901. Una curiosità, ampiamente riportata in rete, rispetto a quest’opera è data dal fatto che il cognome del proprietario dell’albergo di Catanzaro nel quale Gissing soggiornò, Coriolano Paparazzo, fu attribuito da Flaiano e Fellini, che amavano lo scrittore, al fotografo de La dolce vita, dopodiché paparazzo è divenuto nome comune per indicare i fotografi delle riviste scandalistiche.
Gissing comunque fu in vita un autore marginale anche nel suo Paese: i suoi romanzi ebbero in genere un successo scarso o molto contenuto, ed egli si arrabattò sempre con problemi finanziari. Nato nel 1857 nello Yorkshire da una famiglia della piccola borghesia, sembrava avviato ad una brillante carriera accademica, quando – innamoratosi di Nell Harrison, una prostituta – rubò del denaro del college al fine di procurarsi i mezzi per redimerla. Scoperto, fu espulso e incarcerato. Trascorse quindi un periodo di alcuni mesi negli USA, facendo vari lavori e scrivendo racconti per i quotidiani. Tornato in Gran Bretagna, nel 1879 sposò Nell, dedicandosi con scarso successo alla scrittura e all’insegnamento privato. Il matrimonio fallì presto anche a causa dell’alcolismo di lei e nel 1891, tre anni dopo la morte di Nell, Gissing si risposò. Nel frattempo la pubblicazione dei suoi romanzi e l’insegnamento gli diedero una sia pur precaria sicurezza economica. Gli anni ‘90 coincidono con la maggiore attività dello scrittore, che durante il decennio pubblica ben dodici romanzi, tra i quali le sue opere più significative. Fallito anche il secondo matrimonio, nel 1899 si lega alla traduttrice francese delle sue opere, trasferendosi nelle vicinanze di Bordeaux. La sua salute è però precaria, e nel dicembre 1903, a soli quarantasei anni, muore per un forte raffreddamento, lasciando un romanzo inedito ed un altro incompiuto.
Gissing è essenzialmente scrittore di romanzi, ed è dalla loro lettura che probabilmente è possibile analizzare in profondità la sua poetica; scrisse però anche oltre cento racconti, pubblicandoli su riviste letterarie a larga tiratura, dei quali nel 1898 uscì l’unica raccolta pubblicata lui vivente, Human Odds and Ends, contenente 29 racconti. Dopo la sua morte la sua fama crebbe, alimentata anche dalla pubblicazione di opere inedite quali gli ultimi due romanzi e un paio di saggi centrati sulla figura di Dickens. Presto inizò un’importante opera di recupero dei suoi racconti, che portò alla pubblicazione di alcune raccolte quali The House of Cobwebs and Other Stories (contenente 15 racconti, 1906), The Sins of the Fathers and Other Tales (4 racconti, 1924), Victim of Circumstances and Other Stories (15 racconti, 1927); a partire dagli anni ‘30 furono anche recuperati i racconti giovanili scritti negli Stati Uniti per il Chicago Tribune, e pubblicati singoli racconti rinvenuti grazie all’accesso ai manoscritti o agli archivi di riviste. Dal 1965 al 2021 fu anche pubblicata una rivista trimestrale dedicata a Gissing,The Gissing Newsletter, poi The Gissing Journal, che su iniziativa di studiosi quali Jacob Korg e soprattutto Pierre Coustillas dell’Università di Lille – forse il maggiore studioso dello scrittore inglese, scomparso alcuni anni fa – accoglieva i risultati di ricerche sullo scrittore. Fu grazie al lavoro della rivista che nel 1990, con la pubblicazione ad Edimburgo di A Freak of Nature, si concluse ufficialmente la ricerca dei racconti perduti di Gissing.
Il volume oggetto di queste note è un’antologia di dieci racconti, nove dei quali tratti dalle raccolte sopra menzionate, cui si aggiunge Un capriccio della natura, come detto l’ultimo racconto riapparso. Il volume si apre con una breve introduzione di Pierre Coustillas, dalla quale veniamo a sapere che i racconti sono presentati in ordine cronologico di pubblicazione originaria. Dato che il primo di essi fu pubblicato nel 1893, se ne può dedurre che tutti appartengono alla fase matura dell’opera di Gissing. Una curiosità – che testimonia di qualche problema di comunicazione tra l’editore e lo studioso – è il fatto che tra i racconti che Coustillas invita a leggere con attenzione vi è Il destino di Humphrey Snell, che però si cercherebbe invano nel volume, non facendone parte. A parte questa distrazione, il volume della Marlin, ancora oggi reperibile, mi è parso ben curato, e la traduzione di Vincenzo Pepe molto precisa nel restituire lo stile semplice ed asettico dell’autore.
Il volume si apre con il racconto eponimo, a mio avviso anche il più bello della raccolta, uno dei pochi veramente tragici, di una drammaticità che definirei dolente. Ne è protagonista una famiglia proletaria londinese, i Burden, composta da padre, madre e un ragazzino, la cui esuberanza richiama, sia pure alla lontana, alcuni personaggi di Dickens. La famiglia vive in miseria, e per far quadrare i conti la donna è costretta a svolgere precari lavori pesanti, ma a loro modo i Burden sono felici: ”Padre, madre e figliolo, nonostante l’influenza disgregatrice delle circostanze [la povertà in cui vivevano, N.d.R.], si stringevano assieme attorno a quel povero focolare domestico, il centro del loro mondo. Nella forza dell’ignoranza trovavano la difesa contro l’invidia; le loro immaginazioni non avevano mai vagheggiato una condizione di superiorità sociale, di cui, peraltro, non avevano che una vaga nozione. A rendere felici Burden e sua moglie bastavano, ogni tanto, un po’ di soldi che arrotondasse[ro] le entrate settimanali; questa era sempre stata la loro massima aspirazione”. Su di loro si abbatterà la tremenda forza del fato.
Emerge in questo passo del racconto la weltanschaaung della famiglia, che pur nell’asetticità della prosa rende conto di quella dell’autore, il suo radicato conservatorismo, per il quale le classi sociali devono stare al loro posto e lasciare che le élite governino per il meglio.
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Chi sono i falsari? Il romanzo che scrive sé stesso

IFalsariRecensione de I falsari, di André Gide

Bompiani, Tascabili, 2004

Quando nel 1925 André Gide pubblica I falsari ha ormai cinquantasei anni, ed alle spalle opere letterarie di grande importanza, tra le quali L’immoralista (1902), La porta stretta (1909), I sotterranei del Vaticano (1914), opere che siamo portati a classificare come romanzi, in considerazione della loro relativa ampiezza e dell’articolazione complessiva della narrazione. Eppure dedicando I falsari all’amico Roger Martin du Gard, scrittore che avrebbe ricevuto il nobel nel 1937, l’autore scrive: ”A Roger Martin du Gard dedico il mio primo romanzo in testimonianza di profonda amicizia”, e anche più tardi affermò che I falsari costituivano il solo romanzo da lui scritto. Gide infatti non classificherà mai le opere sopra citate come romanzi: considererà le prime due récit, termine difficilmente traducibile in italiano (una possibilità è data da narrazione) con il quale viene indicato il racconto, sia orale sia scritto, di determinati fatti, reali o di fantasia, secondo modalità decise dal narratore; quanto a I sotterranei del Vaticano, egli lo designa come un sotie, riesumando un termine che nel medioevo indicava rappresentazioni teatrali di contenuto politico o di attualità. Per Gide quindi il termine romanzo ha un significato preciso, che va al di là dell’ampiezza della narrazione, dell’articolazione della trama e dei personaggi, della materia stessa dello scrivere: come vedremo, negli anni ‘20 del XX secolo merita per lui questo appellativo solo un’opera totalizzante che – prendendo le mosse dalla grande tradizione letteraria dei due secoli precedenti – ambisca a rappresentare lo spirito dell’epoca; per far questo è però necessario disarticolare, utilizzare solo strumentalmente la cassetta degli attrezzi che la letteratura dei secoli precedenti ha messo a disposizione dello scrittore, giungendo paradossalmente a creare qualcosa di completamente diverso dal romanzo classico. Gide fa quindi pienamente parte, con una sua precisa originalità intellettuale, del grande movimento tellurico che nei primi decenni del novecento rivoluzionò, non solo in ambito letterario, la forma ed il senso stesso dell’espressione artistica.
Dato che – come spesso nelle sue opere – anche ne I falsari grande importanza assumono gli elementi autobiografici, sembra opportuno riassumere a grandi linee la vita di questo grande e contraddittorio intellettuale, sicuramente una delle figure che ha segnato la vita culturale francese ed europea della prima metà del XX secolo e la cui influenza si fa sentire ancora oggi.
André Gide nacque nel 1869 a Parigi in una famiglia della borghesia intellettuale, di stampo puritano. Appena decenne perse il padre, e si legò profondamente alla madre che, pur nell’ambito di un rapporto possessivo, assecondò le sue aspirazioni artistiche. Altra figura femminile di grande importanza nella sua vita fu la cugina, Madeleine Rondeaux, di cui si innamorò adolescente e che finì per sposare, dopo lunghe resistenze di lei e dei suoi genitori, nel 1895: il matrimonio, che – a detta dei testi sacri – non fu mai consumato, durò comunque sino alla morte di lei nel 1938. Dopo una giovinezza segnata da momenti di fervore religioso e dal senso di colpa per la sua omosessualità, peraltro non vissuta sino a oltre vent’anni, Gide la accolse ed ebbe numerose relazioni con altri uomini, anche adolescenti; nel 1923 ebbe da Élisabeth Van Rysselberghe una figlia, che riconobbe solo dopo la morte della moglie. La sua produzione letteraria è piuttosto corposa e molto articolata, essendo composta da testi di narrativa variamente classificabili, alcune opere teatrali, saggi letterari, reportages di viaggio ed altro; le opere principali che la segnano marcano i numerosi passaggi, anche politici nella vita dell’autore. Dopo alcune prove giovanili segnate da un tardo simbolismo, una prima svolta arriva con I nutrimenti terrestri, sorta di saggio filosofico in cui vengono affrontati i temi dell’affrancamento dell’individuo dalla morale corrente e dell’importanza della sensualità; nell’opera si sente l’influsso di Oscar Wilde, autore molto ammirato da Gide: tra l’altro i due si incontrarono un paio di volte durante i numerosi viaggi di Gide. Seguono le opere più importanti, che culminano proprio con I falsari e, l’anno successivo, con l’autobiografico Se il grano non muore. Ormai intellettuale molto influente nella vita culturale francese, anche grazie al suo ruolo di fondatore e animatore della Nouvelle Revue française, pubblica in seguito, oltre ad altre opere di narrativa, resoconti di viaggio, tra i quali molto importanti quelli relativi al Congo e al Ciad, nei quali denuncia gli orrori strutturali del colonialismo, suscitando un ampio dibattito pubblico. Negli anni ‘30 si avvicina al comunismo, dal quale però si dissocia dopo un viaggio in URSS: il saggio che pubblica al proposito accende feroci polemiche a sinistra. Muore nel 1951, dopo avere, quattro anni prima, ricevuto – lui grande irregolare – il più mainstream dei premi, il Nobel per la letteratura.
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L’impossibilità di ‘connettersi’ di fronte al colonialismo

PassaggioinIndiaRecensione di Passaggio in India, di Edward Morgan Forster

Mondadori, Oscar classici moderni, 2009

Passaggio in India è l’unica opera di Edward Morgan Forster che compare nella mia libreria. Forse a suo tempo sono stato influenzato dal calligrafismo dei film che James Ivory trasse da tre celebri romanzi dell’autore inglese (Camera con vista, del 1985, Maurice, 1987, e Casa Howard, 1992), forse non ero particolarmente interessato alle tematiche oggetto dell’esplorazione artistica dello scrittore, andando alla ricerca di una letteratura in qualche modo più potente: sta di fatto che sino a pochi mesi fa di Forster non avevo ancora letto nulla. E forse, infine, non è stato un caso che quando, una quindicina d’anni fa, acquistai finalmente un suo libro, la mia scelta cadde sul suo romanzo più politico, quello in cui affronta una grande tematica con la quale si erano già confrontati, tra gli altri, autori anglosassoni del calibro di Stevenson e Conrad: il colonialismo.
Naturalmente la questione è trattata nell’ambito della peculiare poetica di Forster, e – come vedremo – il romanzo attiene soprattutto a tematiche concernenti la connessione tra le persone, tra queste e la natura e – a livello di singolo – tra sentimenti e convenzioni sociali, riproponendo la poetica dell’only connect cui l’autore affida l’apertura di Casa Howard ma giungendo a conclusioni maggiormente problematiche. Riporto in originale il passo di Howards end nel quale Forster elabora il concetto, perché costituisce la summa primaria della sua poetica e della sua concezione del mondo: ”Only connect the prose and the passion, and both will be exalted, and human love will be seen at his highest. Only connect, and the beast and the monk, robbed of the isolation that is life to either, will die”.
È in ogni caso indubbio che l’ambientazione nell’India dominata dall’impero britannico, permette a Forster, in modo più palese che nei precedenti romanzi – di connettere l’indagine sulla psicologia delle relazioni umane ad una allora rilevantissima problematica politica e sociale, che peraltro si ripronone anche oggi, sia pure in altre forme.
È lo stesso Forster a chiarire il senso del suo romanzo: in un raro documento sonoro, una intervista radiofonica del 1949, afferma infatti (traduzione mia): “Ho scritto Passaggio in India un quarto di secolo fa; non è un opuscolo politico, è un romanzo che parla di esseri umani, che aspira a raggiungere qua e là effetti poetici. L’uso delle grotte di Marabar come uno dei temi ricorrenti è un esempio di tale intenzione poetica, come pure le tre sezioni in cui il libro è diviso, che simboleggiano le tre stagioni dell’anno indiano […]. Ma naturalmente la politica c’entra: impregna il substrato sociale e può essere interessante rileggere per un minuto il romanzo da un punto di vista politico”.
L’autore è quindi pienamente conscio della funzione politica che il romanzo assume, e quel naturalmente a mio avviso esplicita anche la sua consapevolezza del ruolo politico svolto dalla letteratura e dall’arte in genere.
Edward Morgan Forster nacque nel 1879 in una famiglia borghese. Il padre morì dopo poco, ed Edward fu cresciuto dall’amatissima madre e dalle zie. Nel 1896 entra al King’s College di Cambridge, dove consegue due lauree. Divenne membro degli Apostles, un gruppo di discussione del quale facevano parte all’epoca personaggi come John Maynard Keynes e Lytton Strachey e che costituì l’embrione del Bloombsbury group, di cui Forster fece parte. Omosessuale, tenne particolarmente riservata la sua vita sentimentale, sia per carattere, sia perché ben conscio di cosa avesse riservato la civile Gran Bretagna a personaggi come Oscar Wilde e, più tardi, Alan Turing. Il suo primo romanzo, Where Angels Fear to Tread, è del 1905, ed è ambientato in Italia, paese da lui visitato più volte e molto amato, sorta di terra della spontaneità, contrapposta al rigido formalismo della società britannica.
Dopo Il viaggio più lungo, del 1907, Forster pubblica due dei suoi romanzi maggiori: Camera con vista, pubblicato nel 1908 e Casa Howard, del 1910. Entra quindi in una fase di crisi creativa, che si protrarrà sino al 1924, con la pubblicazione di A Passage to India, suo ultimo romanzo. In realtà negli anni ‘10 lavorò ad un romanzo dedicato ad un amore omosessuale, Maurice, che per suo volere fu pubblicato postumo. Durante la prima guerra mondiale, come obiettore di coscienza, operò per la Croce Rossa ad Alessandria d’Egitto, e nel dopoguerra intensificò il suo impegno civile sino a divenire il primo presidente del National Council for Civil Liberties, organizzazione non governativa nettamente antifascista e di sinistra sorta per sostenere le libertà politiche e civili in Gran Bretagna. Oltre ai sei romanzi, scrisse anche racconti, saggi, il libretto dell’opera Billy Budd musicata da Benjamin Britten, resoconti di viaggio. Si spense novantunenne nel 1970, dopo aver ricevuto l’Order of merit, massima onorificenza britannica.
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Fielding, figlio di Omero e Cervantes nonché padre di Dickens (e Joyce?)

JosephAndrewsRecensione di Joseph Andrews, di Henry Fielding

Garzanti, i grandi libri, 2003

Allorché qualche anno fa commentai su questo blog la mia lettura di Viaggio da questo all’altro mondo, verificai la scarsa attenzione che l’editoria italiana stava dedicando a questo fondamentale autore settecentesco: dei cinque romanzi scritti da Fielding, all’epoca ne erano disponibili solo due, e nulla era possibile reperire della sua pur cospicua produzione teatrale.
A distanza di sei anni il panorama editoriale è leggermente cambiato: grazie a piccole case editrici sono infatti disponibili almeno due commedie teatrali di Fielding, entrambe adattamenti da opere di Molière – a testimonianza di quanto l’autore francese fosse uno dei riferimenti artistici del nostro – e quello che è forse il meno noto tra i suoi romanzi, Il marito femmina, che mi precipiterò ad acquistare prima che scompaia, inghiottito dal nulla della letteratura di consumo.
Purtroppo, di converso, questa edizione Garzanti di Joseph Andrews è tristemente scivolata tra i prodotti usati o momentaneamente non disponibili, a testimonianza della inarrestabile decadenza della gloriosa collana I grandi libri, un tempo punto di riferimento ineludibile per gli amanti dei classici: un segnale ancora più preoccupante in questo senso è dato dal fatto che anche il Tom Jones non è al momento più disponibile in questa collana, pur essendo reperibile in libreria in alcune diverse edizioni.
Joseph Andrews è il primo romanzo scritto da Fielding, e fu pubblicato nel 1742 con il titolo The History of the Adventures of Joseph Andrews and of his Friend Mr. Abraham Adams quando l’autore, che sino ad allora si era dedicato solo al teatro, era trentacinquenne. Per la verità l’anno precedente era uscita, anonima, la novella An Apology for the Life of Mrs. Shamela Andrews, oggi concordemente attribuita a Fielding nonostante egli ne abbia sempre negato la paternità. Shamela e Joseph Andrews sono opere strettamente legate, perché entrambe prendono di mira il romanzo epistolare di Samuel Richardson Pamela: or Virtue Rewarded, pubblicato con grande successo nel 1740. Da quest’ultima opera è quindi necessario prendere le mosse per approcciarsi criticamente a Joseph Andrews.
Come noto Pamela narra, per il tramite di lettere tra i vari protagonisti e pagine di diario, le vicende di una sedicenne al servizio di Lady B., di umili origini ma pia, virtuosa e dotata di straordinaria bellezza. Alla morte della padrona, resta al servizio del figlio, il giovane Squire B., che tenta più volte di sedurla arrivando ad imprigionarla e giungendo sull’orlo dello stupro. Pamela oppone sempre alle profferte dell’uomo la sua virtù, meditando il suicidio piuttosto che sacrificarla, sino a quando lui, colpito dal carattere di lei, cambia tattica iniziando a corteggiarla; a sua volta Pamela si rende conto delle attrattive dello Squire: i due convolano felicemente a nozze nonostante la distanza sociale. Il romanzo è una sorta di manifesto dell’ideologia puritana in ambito sessuale, e fu scritto con intenti palesemente edificanti.
Fielding, spirito laico, coglie subito tutta l’ipocrisia moralistica insita nel romanzo, sia quanto a linguaggio – tono aulicamente drammatico e fortemente ellittico rispetto all’oggetto del contendere – sia perché ne emerge chiaramente la concezione che l’istituto del matrimonio sia di fatto un contratto di scambio tra verginità e sicurezza sociale, sia infine per l’eccezionalità dichiarata esplicitamente da Richardson dell’unione tra un aristocratico ed una ragazza di classe inferiore.
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