Pubblicato in: Classici, Letteratura, Letteratura croata, Libri, Narrativa, Novecento, Racconti, Recensioni

Un altro autore presumibilmente importante che non ci è dato conoscere

camaoRecensione di Camao, di Antun Gustav Matoš

Solfanelli, Il Voltaluna, 1991

Antun Gustav Matoš è uno scrittore pressoché totalmente ignorato nel nostro paese: questo volumetto di Solfanelli, piccolo editore di Chieti, credo sia il solo contributo dato dall’editoria nostrana alla sua conoscenza. Peraltro l’edizione risale al 1991, non è più in catalogo da tempo immemorabile, risulta introvabile anche sul mercato dell’usato e, sia per la sua brevità – contiene in una sessantina di pagine due soli racconti – sia per le evidenti lacune della traduzione, permette al lettore di farsi un’idea solo superficiale della poetica di questo autore attivo sul volgere del XX secolo.
Eppure Matoš è unanimemente considerato uno dei padri fondatori della letteratura croata e più in generale jugoslava moderna, che ha contribuito ad innovare profondamente agendo, per così dire, su due diversi fronti. Da un lato riflettendo nei suoi racconti e nelle sue poesie il sentimento nazionale che agitava la Croazia, allora provincia dell’Impero Austroungarico, negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, e dall’altro aprendo la letteratura croata agli influssi delle correnti decadenti, impressioniste e moderniste che in quel periodo caratterizzavano la letteratura dell’Europa occidentale.
Le radici di questa sua connotazione letteraria possono essere ricercate nella sua vicenda umana, travagliata ma ricca di esperienze. Matoš nacque a Tovarnik, piccolo centro al confine tra Croazia e Serbia, nel 1873, da una famiglia della piccola borghesia che due anni dopo si trasferì a Zagabria, dove il giovane Antun studiò solfeggio e violoncello. Nel 1891 si iscrisse alla facoltà veterinaria di Vienna, abbandonandola quasi subito per mancanza di interesse. È in quegli anni che iniziò a scrivere brevi racconti. Quando nel 1893 fu arruolato nell’esercito austroungarico disertò, riparando a Belgrado, dove per tre anni condusse una vita bohémienne suonando il violoncello ma facendosi notare anche come critico letterario. In seguito visse a Monaco e a Ginevra, per poi giungere nel 1899 a Parigi, entrando in contatto con gli ambienti letterari della capitale francese. Solo nel 1908, a seguito di un’amnistia, poté tornare dopo tredici anni di esilio a Zagabria, dove continuò a condurre un’esistenza professionalmente precaria, ricevendo numerosi rifiuti alla pubblicazione delle sue opere. Malato di cancro alla gola, morì nel marzo del 1914.
Matoš scrisse soprattutto racconti e novelle – in vita ne pubblicò tre raccolte, risalenti agli anni parigini – oltre a poemi e poesie – la maggior parte dei quali pubblicati dopo la sua morte – e saggi letterari e critici. Riguardo all’ispirazione dei suoi racconti ebbe a dire: ”ho la più grande ammirazione per il genio di Poe, la precisione concisa e superiore di Merimée e il senso naturale per la satira di Maupassant”. La sua produzione letteraria è quindi essenzialmente intrisa della cultura francese del tardo ottocento, di cui era un grande ammiratore. Le notizie che ho potuto reperire in rete portano a ritenere che due siano i grandi filoni entro i quali possono essere classificati i suoi racconti: il realismo di storie ambientate a Zagabria o nella regione rurale circostante, nelle quali prevalgono la nostalgia dell’esule per la terra d’origine e la ricerca di una specificità culturale croata, e le storie fantastiche, intrise di di un simbolismo decadente e degli influssi di Edgar Allan Poe, nelle quali spesso il tema dominante è quello della morte. Analoghe tematiche si possono ritrovare nelle sue composizioni poetiche. Continua a leggere “Un altro autore presumibilmente importante che non ci è dato conoscere”

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L’epica della comunità a fondamento della letteratura statunitense

DolphHeylingerRecensione di Dolph Heyliger, di Washington Irving

Solfanelli, il Voltaluna, 1989

Alcune settimane fa, leggendo un articolo sul blog di Elena Grammann riguardante un libro di Peter Handke, nel quale l’autore tedesco veniva in qualche modo messo a confronto con l’opera di Thomas Pynchon, mi sono imbattuto in questa sua (di Elena) analisi, che mi ha colpito e rispetto alla quale concordo pienamente:
”Il romanzo americano, mi pare, è capace di parlare di una collettività in modo convincente (cioè facendo letteratura e non intrattenimento o giornalismo); naturalmente parte dall’individuo, ma attorno all’individuo si percepisce, altrettanto naturalmente, una collettività; si percepisce che il romanzo ci crede. Questo è qualcosa che in Europa si è perso.”
Washington Irving in questo racconto, sicuramente meno noto di Rip Van Winkle e di The Legend of Sleepy Hollow, tra le altre cose ci mostra, a mio avviso, come il senso di comunità sia uno degli elementi fondanti della cultura statunitense, rinvenibile sin dalle origini della sua letteratura, forse con la sola eccezione del più eccentricamente europeo dei suoi scrittori dell’800, Edgar Allan Poe.
Washington Irving è scrittore poco frequentato da noi, e probabilmente molti lo conoscono solo per via indiretta, grazie alla trasposizione cinematografica di The Legend of Sleepy Hollow, realizzata quasi una ventina d’anni fa da Tim Burton, con Johnny Depp come protagonista.
Eppure Irving, nato nel 1783, è riconosciuto come uno dei padri fondatori della letteratura statunitense, secondo molti il primo vero letterato d’America, anche se non mancano le voci critiche (tra le prime proprio quella di Poe) che gli imputano da un lato una certa superficialità di temi e dall’altro il fatto che si limitò a trasporre nel nuovo mondo elementi tipici della cultura letteraria europea dell’epoca. Irving infatti viaggiò molto e visse per ben 17 anni in Europa, soprattutto a Londra, raccogliendo tra l’altro materiale letterario sul folklore tedesco. Egli era quindi un profondo conoscitore della letteratura europea, del romanticismo tedesco come del romanzo storico e gotico britannico, ma – dopo aver letto i suoi due racconti più famosi e questo Dolph Heyliger non mi sento di condividere un giudizio liquidatorio sull’autore, che secondo me attinge intelligentemente ad alcuni dei generi della letteratura europea dell’epoca rielaborandoli in chiave schiettamente americana e consegnandoci delle storie scritte con una notevole eleganza, pienamente godibili anche oggi.
Va tuttavia notato che questo mio giudizio è limitato sia dal fatto che ho letto poco di lui, sia dal fatto che che in ogni caso non avrei potuto leggere molto di più: della sua cospicua opera, fatta prevalentemente di raccolte di racconti, di biografie a carattere storico e di libri di viaggi, solo pochi titoli sono disponibili in libreria. Dei quattro libri di racconti e saggi che costituiscono la parte più importante dell’opera di Irving, solo uno (I racconti dell’Alhambra) è reperibile in libreria, mentre un secondo (Il libro degli schizzi), edito a quanto mi risulta per l’ultima volta nella BUR nel 1990, si può trovare ormai solo sulle bancarelle fisiche o virtuali dell’usato. Per il resto in libreria si trovano solo edizioni dei due racconti citati sopra e poco altro, tra cui – fortunatamente – Dolph Heyliger, in edizione e con traduzione diversa da quella da me letta. Continua a leggere “L’epica della comunità a fondamento della letteratura statunitense”