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Il ‘polar’ esistenzialista

UnUomoQualunqueRecensione di Un uomo qualunque, di André Héléna

Fanucci, Collezione vintage, 2008

Come nel caso de Il ricettatore, anche questo romanzo, con il quale termino per ora i miei incontri con le opere di André Héléna, presenta in originale un titolo che deriva dall’argot della malavita: Le demi-sel. Il termine, dispregiativo, designa in gergo un piccolo criminale, e più in generale una persona che non è all’altezza delle situazioni. La scelta di Cinzia Poli di tradurre questo titolo in Un uomo qualunque appare corretta – anche se fa in qualche modo uscire il protagonista dall’ambiente in cui si muove nel romanzo per portarlo in un’atmosfera astrattamente individualistica – vista l’impossibilità di renderlo letteralmente e il fatto che lo stesso Héléna designa in questo modo il protagonista in un passo del libro; tuttavia, forse in italiano una alternativa più aderente allo spirito del titolo originale ci sarebbe stata, e mi azzardo a proporla: La mezza tacca.
Il romanzo fu pubblicato nel 1952, un anno prima de Il ricettatore, con il quale presenta, come si vedrà, molte analogie, sottolineate tra l’altro dal fatto che appartengono entrambi alla collezione Les compagnons du destin delle edizioni Vinay, nell’ambito della quale Héléna pubblicò, tra il 1952 e il 1953, nove romanzi, riediti da Fanval nel 1988 nel pieno della riscoperta dello scrittore da parte della critica francese, che possono essere considerati tra i migliori rappresentanti del polar esistenzialista dell’autore occitano.
Il protagonista di Un uomo qualunque è davvero una mezza tacca, sin dal buffo e inusuale nome: Balthazar. È ancora giovane e farebbe di mestiere il tecnico disegnatore, ma è perennemente disoccupato e teoricamente in cerca di un lavoro. Non ha amici né parenti, e vive da solo a Levallois, un quartiere della prima periferia di Parigi. La sua solitudine da qualche mese è tuttavia finita, perché ha incontrato Gisèle, una ragazza che ama e da cui è riamato.
Da qualche tempo però si è messo nei guai: entrato per caso in contatto con una banda di malviventi il cui capo è un siciliano di nome Scipioni, gli ha fornito le informazioni per un grosso colpo in una ditta per cui ha lavorato, in cambio di una parte del bottino. Al momento di pagarlo, i componenti della banda hanno però pensato che sarebbe stato meglio dividere il bottino in una parte di meno: considerandolo un ingenuo, uno di loro, tal Moreno, si è incaricato di portare Balthazar in un luogo deserto dove farlo fuori. Senonché Balthazar, che per prudenza aveva portato con sé la sua Mauser, quando capisce la mala parata non esita a far fuoco uccidendo il malvivente.
Da allora Balthazar vive nella paura della reazione della banda, e questo tra l’altro sta rovinando il suo rapporto con Gisèle, cui non ha detto nulla: per proteggerla, non la porta più a casa sua e la vede il meno possibile, tanto che Gisèle sospetta che lui abbia un’altra donna.
Tutto questo il lettore, secondo una tecnica narrativa usuale nel noir e che ho ritrovato in tutti e tre i romanzi di Héléna sinora letti, lo viene a sapere a poco a poco nel corso del romanzo, che inizia in media res, il giorno in cui Bathazar si rende conto che alla fermata dell’autobus che vede dalla finestra di casa c’è da molte ore un tizio sospetto, sicuramente sulle sue tracce per vendicare la morte di Moreno. Inizia così l’odissea del protagonista, che tenta di sfuggire alla morte o all’arresto da parte della polizia, presto sulle sue tracce, nei bassifondi di una fredda e notturna Parigi invernale, indifferente e sferzata da vento e pioggia.
Come detto molti sono i punti di contatto con il successivo Il ricettatore. Entrambi i romanzi sono centrati sulla figura di un escluso, un solitario che vive ai margini sociali della grande metropoli; entrambi sono scritti in terza persona, e si occupano della parte finale della vicenda esistenziale dei due protagonisti, risalendo al passato – che gioca un ruolo importante nella loro personalità – lungo lo scorrere del romanzo, soprattutto utilizzando una sorta di indiretto libero che riporta le loro riflessioni interiori. Anche la tecnica narrativa è molto simile: in entrambi i romanzi lo scrittore allarga lo sguardo su scenari e personaggi diversi nel corso dei brevi capitoli in cui sono suddivisi, portando avanti le varie vicende, collegate a quelle del protagonista, in parallelo; così, in Un uomo qualunque, il peregrinare notturno di Balthazar è interrotto da capitoli dedicati alle contemporanee mosse della polizia e della banda di Scipioni, alle riflessioni di Gisèle eccetera. In entrambi i romanzi, infine e ovviamente, non mancano le situazioni cruente e tragiche, come pure le coincidenze e le forzature che contribuiscono a determinare il corso degli eventi e il destino dei protagonisti.
Al netto di tali analogie è però a mio avviso palese come Balthazar Bornillot sia un personaggio più consistente rispetto a Monsieur Bernard Cohen, e come il romanzo del quale è protagonista complessivamente si elevi ad un livello superiore rispetto a Il ricettatore.
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Dentro il ‘polar’: il rientro nei ranghi

IlRicettatoreRecensione de Il ricettatore, di André Héléna

Aìsara, Narrativa, 2009

Nella mia recensione a Gli sbirri hanno sempre ragione ho già accennato al fatto che André Héléna fu scrittore prolifico, avendo pubblicato in vita più di duecento romanzi, per lo più presso case editrici di second’ordine, specializzate nei generi poliziesco, noir oppure erotico. Héléna scriveva per vivere, essendo tra l’altro pagato poco e rivolgendosi ad un pubblico che poco badava alle raffinatezze letterarie.
È quindi inevitabile che una così vasta produzione fosse perlopiù caratterizzata da un livello artistico ritenuto piuttosto basso. La riscoperta dell’autore, avvenuta a partire dal 1986, si è quindi basata sulla pubblicazione di una piccola parte dei suoi romanzi, probabilmente quelli che gli addetti ai lavori hanno ritenuto letterariamente più significativi. Consultando uno qualsiasi dei siti francesi di vendita di libri, si trovano oggi in vendita non più di una ventina di titoli dell’autore occitano. Questa prima selezione – per compiere la quale comunque le ragioni del mercato hanno probabilmente avuto la loro parte, come può testimoniare il fatto che siano stati ripubblicati anche alcuni dei suoi romanzi erotici, con ogni probabilità non in ragione di riconosciuti meriti artistici – è stata ulteriormente affinata dagli editori italiani, che hanno tradotto una dozzina di suoi romanzi. Nonostante questa doppia distillazione anche le opere giunte nel nostro paese paiono caratterizzate – almeno a giudicare da queste mie prime letture – da livelli qualitativi diversi: così, Il ricettatore, pubblicato nel 1953, è un romanzo che – pur indubbiamente elevandosi letterariamente rispetto all’opera puramente di genere – si presenta come molto più convenzionale rispetto alla eterodossia de Gli sbirri hanno sempre ragione.
Il romanzo è centrato sulla figura, un modesto antiquario parigino, ormai oltre la cinquantina, nella cui bottega in Rue Didot, a Montparnasse, non entra quasi mai nessuno. In realtà il piccolo negozio è poco più di una copertura, perché la attività principale di Monsieur Bernard è quella di ricettatore: acquista infatti da ladri e rapinatori gioielli frutto dei loro colpi per smontarli e fonderli rivendendo le pietre e i metalli preziosi di cui sono composti. È anche coinvolto in una truffa orchestrata da un ex rappresentante di commercio originario di Tolosa, Joseph Vielmas. Costui è il santone di una setta paracristiana che ha adescato una trentina di anziani adepti, a cui spilla soldi sotto forma di sottoscrizioni per l’acquisto di paramenti e arredi sacri, a maggior gloria di dio. Monsieur Bernard fornisce al tolosano oggetti dozzinali, che gli ingenui fedeli pagano decine di volte il loro valore, ed i due si spartiscono il plusvalore. Il ricettatore è incensurato, e sue relazioni sociali si limitano ad una giornaliera partita a carte con tre conoscenti in un piccolo bistrot del quartiere.
In realtà questi ed altri particolari sul protagonista, sulla sua vita e sulla sua personalità il lettore li apprende nel corso della lettura: nelle prime pagine il romanzo descrive infatti l’episodio che trasforma il tranquillo ricettatore in un assassino. Uno scassinatore, soprannominato il Tatuato, in una sera piovosa rompe con un mattone la vetrina di una grande e nota gioielleria del centro e arraffa una quantità di gioielli, prima di infilarsi nella sua Mercury nera e fuggire. Quando è ormai sicuro di non avere la polizia alle calcagna vede nello specchietto retrovisore che nel sedile posteriore c’è un altro uomo, con una pistola in pugno, che gli ordina dove dirigersi. Durante il tragitto lo sconosciuto dice al Tatuato di non preoccuparsi: egli è solo un ricettatore che acquisterà i gioielli frutto della rapina ad un buon prezzo. Giunti in un androne deserto, conduce il rapinatore in un bugigattolo dove esamina la refurtiva, rendendosi conto del suo grande valore: mercanteggia con il rapinatore e dopo aver finto di cedere alle sue richieste lo uccide a sangue freddo, abbandonando quindi la Mercury con il cadavere al Bois de Boulogne.
Il delitto è pressoché perfetto: la polizia brancola nel buio, sospettando un regolamento di conti negli ambienti della mala a seguito del clamoroso furto, e Monsieur Bernard le è del tutto sconosciuto: per i pochi che frequenta egli è infatti solo un piccolo antiquario dalla vita anonima.
Nel romanzo, che è scritto in terza persona, due livelli narrativi si intrecciano strettamente: da un lato l’azione, che presenta i tratti tipici del noir, con omicidi e suspense, dall’altro l’analisi della psicologia dei personaggi, in particolare di Monsieur Bernard, affidata ai suoi pensieri e ai suoi ricordi, oltre che ai suoi gesti quotidiani di emarginato nella grande metropoli parigina. È a mio avviso quest’ultimo livello narrativo a rendere interessante il romanzo, ed a fare di Monsieur Bernard un personaggio letterario dotato di un suo preciso spessore e di una sua specifica tragicità, fratello minore di tanti altri esclusi che vedono nel crimine e nell’efferatezza una modalità di riscatto personale e sociale, anche se non bisogna sorprendersi del fatto che – considerata la collocazione editoriale delle opere di Héléna – l’analisi non si spinga mai in profondità, e molti spunti interessanti siano lasciati cadere o non siano sufficientemente sviluppati rispetto alle loro potenzialità.
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Prima del polar, oltre il polar: la denuncia dei metodi giudiziari nella Francia del dopoguerra

GliSbirriHannoSempreRagioneRecensione de Gli sbirri hanno sempre ragione, di André Héléna

Aìsara, Narrativa, 2009

Dopo le brughiere, i boschi e i campi del Wessex vittoriano di Thomas Hardy il passaggio al polar francese è stato piuttosto brusco. Con Gli sbirri hanno sempre ragione ho dato infatti inizio alla lettura di tre romanzi di André Héléna, storie di criminali e polizia ambientate nel paesaggio metropolitano parigino degli anni del secondo dopoguerra.
André Héléna è uno dei molti scrittori di genere pressoché ignorati in vita e rivalutati solo molto tempo dopo la morte. Nato nel 1919 a Narbonne, figlio dunque di quel lembo di Francia mediterranea nel quale già si sentono richiami catalani, appena diciassettenne si reca a Parigi per far parte della troupe di un film su Arsène Lupin, per poi partecipare brevemente – dalla parte giusta – alla guerra civile spagnola; poco dopo pubblica una raccolta di poesie, Le bouclier d’or.
Scoppiata la guerra, viene riformato e torna in Occitania, per unirsi nel 1944 al maquis. Rientrato a Parigi dopo la liberazione, si arrangia con piccoli lavori precari, continuando a condurre una vita bohémienne. L’amore per la letteratura lo spinge a fondare una rivista di poesia, La poterne, che non solo ha scarso successo, ma lo porterà in prigione per sei mesi per aver sottratto (probabilmente per ingenuità ed inesperienza) fondi dagli abbonamenti. Questa esperienza sarà alla base del suo primo romanzo, Le flics ont toujours raison!, scritto nel 1948 e pubblicato da World Press l’anno successivo, cui seguirà un altro dei suoi capolavori, Le dieu s’en foute. Sempre sottopagato e alla ricerca di soldi, tra gli anni ‘50 e ‘60 scriverà oltre duecento romanzi utilizzando svariati pseudonimi, spaziando tra il genere polar e quello erotico-pornografico, pubblicati da varie case editrici specializzate – tra le quali la allora popolare Ditis di Parigi – e conoscendo solo brevi periodi di tranquillità finanziaria: il suo amico Leo Malét ha raccontato che per raggranellare qualcosa era solito andare personalmente a proporre i suoi romanzi a edicole e librerie.
Deluso e ormai dedito all’alcool, si ritira nell’amata Occitania, a Leucate, dove muore, completamente dimenticato, nel 1972 a soli 53 anni. Si dovrà attendere il 1986 perché una casa editrice francese ripubblichi alcuni dei suoi romanzi, avviando la riscoperta dell’autore, che oggi è considerato uno dei padri del noir francese e tradotto in molte lingue.
In Italia la fortuna editoriale di Héléna è durata lo spazio di quattro anni: tra il 2008 e il 2012 la casa editrice cagliaritana Aisara, oggi purtroppo svanita nel nulla, ha infatti pubblicato dodici tra i suoi più significativi romanzi, e negli stessi anni Fanucci ne ha proposti altri due; poi più nulla, neppure in e-book. Fortunatamente quasi tutti questi titoli sono ancora disponibili in libreria, e consiglio vivamente gli appassionati di andarli a cercare, perché è presumibile che a breve non lo saranno più, e sarà necessario attendere una qualche prossima riscoperta editoriale dell’autore.
Gli sbirri hanno sempre ragione non è propriamente un polar, ma piuttosto un romanzo di denuncia del sistema giudiziario francese e degli abusi della polizia; come detto, è il primo romanzo pubblicato dall’autore e prende spunto dalla sua esperienza carceraria di poco tempo prima. Nella breve prefazione alla sua seconda edizione (1952), Héléna scrive: ”Le randellate della polizia esistono. Io lo so. Ho visto detenuti arrivare in gabbia in uno stato tale che il sorvegliante capo manifestava le sue riserve. Ho sentito uomini urlare sotto i colpi. Ma nel 1949, il libro, anche se esaurito rapidamente, non provocò nessuna reazione tra le alte sfere. Solo coloro che avevano fatto esperienza della Giustizia potevano credermi, perché sapevano che niente di quella storia pietosa era inventato. Era un racconto genuino, crudo e distinto come un grido di rabbia”.
Il romanzo è narrato in prima persona dal protagonista, Théophraste Renard detto Bob, un piccolo delinquente trentenne che tre mesi prima ha finito di scontare trenta mesi di galera per un furto. Lo incontriamo mentre sta cercando un lavoro a Compiègne, nei pressi di Parigi. Ha però un grosso problema, rappresentato dal divieto di soggiorno a Parigi, in quanto ex detenuto. Deve presentarlo insieme ai documenti, e a quel punto tutti si rifiutano di assumerlo, anche se Compiègne non è compresa nell’area a lui vietata. Ormai sta finendo i soldi, per cui, disperato, pubblica un annuncio su una rivista osé offrendosi come gigolò per signore sole, quindi decide di rischiare il tutto per tutto e va a Parigi. Lì incontra un suo conoscente, un magnaccia che si offre di ospitarlo temporaneamente in una villa di Medun dove lavorano tre sue ragazze: una di queste, Gisèle, si innamorerà di lui. Inaspettatamente, pochi giorni dopo riceve alcune risposte al suo annuncio e va a vivere da una signora che lo ospita in cambio dei suoi servigi. Poco dopo trova un lavoro e anche l’amore, nei panni della timida dattilografa della ditta, con la quale progetta il matrimonio. Quando tutto sembra mettersi per il meglio la polizia lo mette nel mirino per un furto per il quale è stato arrestato un suo ex complice, il cui compare è riuscito a scappare. Verrà a sua volta arrestato e sottoposto a violenze da parte della polizia perché confessi, quindi condannato al carcere nonostante la sua estraneità al fatto.
Il romanzo è piuttosto breve, come si addice al genere, e suddiviso esattamente a metà. Dei dieci capitoli di cui si compone, cinque sono dedicati al fallito tentativo di Bob di reinserirsi nella società, mentre gli ultimi cinque descrivono i soprusi della polizia e la sua vita in carcere, sino all’amaro finale che non svelo.
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