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L’appello di un intellettuale conservatore a non distruggere l’Ungheria

LaPortadellaVitaRecensione de La porta della vita, di Ferenc Herczeg

Rizzoli, BUR, 1960

Roma, 26 dicembre 1512. Una grandiosa sfilata percorre il Corso: in città entra, accompagnato da nobili, soldati e mule cariche d’oro, il patriarca d’Ungheria, Tamás Bakócz, uno degli uomini più ricchi e più potenti d’Europa. Sono gli ultimi mesi del pontificato di Giulio II della Rovere, il papa guerriero che ha ristabilito il potere temporale dello stato pontificio su buona parte dell’Italia centrale, combattendo veneziani e francesi. La sifilide da cui il papa è affetto lo sta portando rapidamente alla morte, e le prospettive sono incerte: se da una parte il sacco di Prato perpetrato dagli spagnoli appoggiati dal papato ha permesso il ritorno dei Medici a Firenze, dall’altro i francesi sono nell’Italia del Nord e minacciano la pontificia Ravenna. La città di Roma è un grande cantiere e culla delle arti in questo secondo periodo del Rinascimento: Giulio II ha affidato a Bramante la costruzione della nuova Basilica di San Pietro in Vaticano, mentre Michelangelo, ricomposti i tempestosi rapporti con il papa causati dal progetto per il suo mausoleo, sta dipingendo la Cappella Sistina e il giovane Raffaello è sempre più il beniamino della curia e dei nobili romani.
Tamás Bakócz viene a Roma con un obiettivo preciso: farsi eleggere papa al fine di poter promuovere da pontefice una lega delle potenze europee in grado di contrastare l’avanzata degli ottomani, che minacciano di entrare in Ungheria da sud.
Pochi decenni prima, nel 1456, János Hunyadi, il cavaliere bianco, ha sconfitto a Belgrado Maometto II, anche grazie all’esercito di contadini messo insieme dalle predicazioni di Giovanni da Capestrano; il re suo figlio, Mattia Corvino, aveva poi dato all’Ungheria tre decenni di prosperità, durante i quali aveva chiamato a Buda numerosi artisti italiani favorendo lo sviluppo delle arti e del gusto rinascimentale nel suo paese. Dopo la sua morte, tuttavia, il potere reale si era frantumato nelle mani di numerosi signorotti locali, e la mancanza di un forte governo centrale rendeva ora l’Ungheria debole di fronte alla rinnovata minaccia turca. Bakócz, figlio di un carradore, ha accumulato una immensa fortuna, e sa bene che la salvezza del paese dipende dalla possibilità di coinvolgere le potenze occidentali nella lotta contro l’impero ottomano, e che solo da papa potrà avere il potere politico di concretizzare tale coinvolgimento. Per farsi eleggere nel conclave che si ritiene prossimo egli però deve convincere i cardinali: in pratica deve comprarli. La sua venuta a Roma ha lo scopo di conoscere le esigenze di ogni cardinale e di soddisfarle al fine di assicurarsi i loro voti.
Il suo progetto si scontra però con la politica di Giulio e dei cardinali italiani: un papa straniero, che per di più utilizza metodi simoniaci come l’esecrato Alessandro VI Borgia, ultimo non italiano salito al soglio di Pietro, avrebbe marginalizzato l’Italia e Roma in favore della questione ungherese, destinando a tal fine le risorse necessarie alla lotta per l’egemonia dello Stato Pontificio sull’Italia e per il completamento delle grandi opere in corso a Roma; la stessa centralità della Città Eterna sarebbe stata messa in discussione. Per questo Giulio II, in quegli ultimi mesi, si oppose, al grido di fuori i barbari, alle manovre di Bakócz, emanando negli ultimi giorni di vita una bolla contro la simonia e richiamando in questo modo all’ordine i cardinali. Anche il maggior banchiere italiano dell’epoca, Agostino Chigi, grande mecenate, vedeva ovviamente come un pericolo per i propri affari lo spostamento ad est del centro gravitazionale del papato, e si adoperò per l’elezione di un papa italiano. Fu così che quando, il 21 febbraio 1513, Giulio II morì, il conclave elesse in pochi giorni al soglio pontificio il giovane Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, che con il nome di Leone X avrebbe proseguito di fatto le politiche di Giulio II, facendo di lì a poco scoppiare la riforma luterana a causa della compravendita delle indulgenze necessaria per procurarsi il denaro destinato a finanziare le guerre e le grandi opere in corso a Roma. Il patriarca ungherese rientra così sconfitto nella sua terra, che viene presto effettivamente attaccata dagli ottomani, cadendo per oltre un secolo sotto il loro dominio dopo la sconfitta di Mohács (1526).
Riassumere questi fatti è fondamentale al fine di contestualizzare la lettura de La porta della vita, romanzo storico ambientato proprio nel breve periodo del passaggio dal papato di Giulio II e quello di Leone X, pubblicato nel 1920 da Ferenc Herczeg, scrittore e drammaturgo ungherese nato nel 1863 e morto a Budapest nel 1954, di cui oggi non sono reperibili titoli in libreria, ma che, soprattutto nel periodo tra le due guerre, vide numerose edizioni italiane delle sue opere, composte sia da romanzi sia da opere teatrali. La trilogia di romanzi storici di cui, oltre a La porta della vita fanno parte anche I pagani, che narra della conquista romana della Pannonia, e Luna calante, dedicato al periodo della dominazione turca, fu pubblicata dalla benemerita BUR tra il 1958 e il 1961: chi fosse curioso di assaporare la prosa di questo scrittore può quindi agevolmente acquisire questi titoli sul mercato dei libri usati.
Herczeg non è scrittore marginale nella storia letteraria ungherese. Fu conservatore e nazionalista, direttore dal 1895 della rivista letteraria Tempi nuovi a cui collaborò sino al 1944, rivolta soprattutto alla piccola borghesia magiara, sulla quale scrivevano molti intellettuali ungheresi, dalle cui colonne Herczeg sostenne l’impero austro-ungarico in guerra e più tardi il regime di Miklós Horthy. Fu membro del parlamento ungherese sin dal 1904, e nel primo dopoguerra uno degli esponenti di spicco del movimento che rivendicava la revisione del trattato del Trianon in base al quale l’Ungheria aveva dovuto rinunciare a regioni quali la Transilvania, la Slovacchia, la Galizia ed altre. Nel secondo dopoguerra le sue opere non vennero più stampate in Ungheria sino agli anni ‘80.
La trilogia di romanzi storici di cui fa parte La porta della vita è centrata su tre momenti cruciali della storia del popolo magiaro. Significativamente, a mio avviso, il primo romanzo, I pagani, fu scritto prima della grande guerra, quando l’Ungheria faceva ancora parte del grande organismo multinazionale che era l’impero Austro-Ungarico. Questo romanzo, come accennato sopra, è una ”sorta di grande affresco dove si vedono le stirpi peceneghe-pagane inabissarsi nella voragine del tempo, debellate dalla «nuova religione»: la religione venuta da Roma” (dalla prefazione di Alfredo Jeri). Si trattava allora di costruire un’epica storica dell’Ungheria, di rimarcarne le peculiarità nell’ambito di un quadro politico che, dopo le rivoluzioni e le spinte nazionalistiche del secolo precedente, aveva trovato una sua (apparente) stabilità grazie alle necessarie aperture autonomistiche del centro viennese.
Completamente diverso è lo scenario in cui vedono la luce La porta della vita e Luna calante, scritti dopo la sconfitta, in una nazione mutilata di metà delle terre sulle quali si estendeva, nella quale era appena stata rovesciata dai paesi confinanti e dalle potenze vincitrici la Repubblica Sovietica di Béla Kun e iniziava il regime del Maresciallo Horthy. Ora era necessario, per il conservatore Herczeg, accentuare – oltre che l’origine occidentale della cultura magiara – il suo essere stata spesso vittima delle potenze dell’Europa occidentale, che per avere mirato solo ai propri interessi di breve periodo non avevano compreso l’importanza dell’Ungheria come antemurale di fronte all’avanzata ottomana e non l’avevano sostenuta nell’impari lotta, non le avevano consegnato le chiavi della porta della vita. Herczeg in questi due romanzi ci parla quindi della sconfitta magiara di fronte ai turchi, soprattutto, a mio modo di vedere, al fine di mostrare ai suoi lettori ungheresi come le cause ultime di quella sconfitta fossero da ricercarsi nelle stesse potenze (mutata mutandis) che ancora una volta mortificavano e tenevano in ostaggio il paese, ma anche di mostrare ai lettori esteri (i romanzi di Herczeg erano tradotti in tutta Europa) che nel corso della Storia mortificare l’Ungheria aveva significato mettere in serio pericolo l’Europa.
La porta della vita narra quindi della sconfitta delle ambizioni papali di Tamás Bakócz, ambizioni che però non sono unicamente personali, ma come accennato strettamente connesse alla volontà di salvare l’Ungheria dall’invasione turca. Con una precisione storica che si concede poche licenze poetiche il romanzo si apre con l’ingresso del corteo di Bakócz a Roma. Tra coloro che lo accompagnano c’è anche il giovane nipote, Tamás Vértesi, che riceve l’incarico dallo zio di assumere e registrare informazioni a carico dei cardinali che si riuniranno presto in conclave. Egli si innamora di Fiammetta, giovane e bellissima cortigiana legata ad Agostino Chigi, ed a seguito di una misteriosa apparizione ne fa la sua complice nel lavoro di spionaggio. Tra appuntamenti e agguati notturni, splendidi ricevimenti alla Farnesina (la villa sul Tevere di Chigi), incontri con Raffaello, Michelangelo, Bembo ed altri, le trame degli ungheresi non vanno a buon fine anche perché…
Un romanzo di amori e intrighi nella Roma papalina all’apice della gloria e intrisa di crudeli lotte per il potere, che sia per lo stile di scrittura, convenzionalmente aulico, sia per lo sviluppo della trama potrebbe benissimo essere classificato come romanzo d’appendice scritto fuori tempo massimo, se non fosse per il ruolo che ambisce a svolgere nel momento storico in cui fu scritto.
Così, assume particolare importanza la precisione storica che caratterizza il romanzo. I personaggi principali, i due papi, il Chigi, il patriarca d’Ungheria sono tratteggiati seguendo le loro figure storiche, ed i principali avvenimenti sono effettivamente accaduti così come narrati. Ciò è essenziale all’autore per assicurare veridicità a ciò che narra, e porre il papato di fronte alle sue responsabilità di allora come l’Europa di fronte a quelle del suo oggi. Da notare che anche Fiammetta è realmente esistita, benché non fosse amante di Agostino Chigi ma, almeno sembra, di Cesare Borgia, il Valentino, morto peraltro qualche anno prima dei fatti narrati. Amante del Chigi e sua protetta fu invece sicuramente Imperia, un’altra cortigiana che il romanzo ci presenta come madre spirituale di Fiammetta: per una strana coincidenza entrambe comunque morirono proprio durante quel 1512 nei cui ultimi giorni il romanzo prende avvio. Forse però la licenza più importante che si prende Herczeg è quella di far abitare a Roma in quel periodo anche Leonardo da Vinci, che vi giungerà solo oltre un anno dopo. L’episodio, apparentemente secondario, della presenza di Leonardo ad una delle feste date da Agostino Chigi permette ad Herczeg di esporre in poche righe una teoria sul rapporto tra arte e natura che a mio avviso rappresenta uno dei momenti più alti del romanzo.
Un romanzo quindi quasi d’appendice, a tratti banale nel suo svolgimento e redatto in uno stile di retroguardia, soprattutto confrontandolo con ciò che all’epoca della sua scrittura stava accadendo in Europa, e non solo, a livello letterario, ma un romanzo che in realtà ci racconta tante cose, oltre a quelle cui abbiamo già accennato. Innanzitutto per noi lettori italiani è importante come l’autore rimarchi gli stretti legami culturali che univano il rinascimento italiano alle classi dirigenti magiare. Come detto il romanzo è ambientato nel 1512, un ventennio dopo la morte di Mattia Corvino, il re influenzato dall’umanesimo neoplatonico di Marsilio Ficino che chiamò alla sua corte di Buda alcuni tra i più prestigiosi esponenti del rinascimento italiano, da Filippo Lippi al Mantegna ai più famosi architetti del tempo. Il protagonista del romanzo, il giovane Tamás Vértesi, ha studiato a Ferrara e sogna che, assurto lo zio al pontificato, i giovani ungheresi possano venire in Italia per apprendere dalla nostra arte e cultura. Tutto il romanzo è pervaso da questa necessità di dimostrare che l’Ungheria, pur nella sua diversità, è parte dell’Europa e ha una profonda comunione intellettuale con la terra che più ha dato alla cultura europea, essendone stata l’indiscusso centro nel corso del tempo. È indubbio che questo richiamo a radici culturali comuni abbia l’intento di sottolineare la necessità che le potenze vincitrici (e l’Italia era tra queste) guardassero all’Ungheria con occhi diversi, e non è forse un caso che questo legame verrà concretamente rinsaldato all’inizio degli anni ‘30, quando l’Italia mussoliniana stringerà un patto d’amicizia con l’Ungheria di Horthy.
Sempre per il lettore italiano è interessante valutare come l’autore confronti, soprattutto parlando delle varie fasi che vive l’amore tra il giovane Tamás e Fiammetta e delle sue conseguenze, la mentalità italiana e quella ungherese, concludendo che quest’ultima, sia pure più fredda, è dotata di una maggiore dose di nobiltà d’animo. Occorre anche dire che l’autore è perfettamente conscio che la compravendita di cardinali ordita da Tamás Bakócz è moralmente riprovevole; tuttavia essa viene giustificata in nome del supremo interesse dell’Ungheria e quindi dell’Europa: ”È uno scherzo amaro della sorte il fatto d’aver noi dovuto ricorrere ad armi sleali per uno scopo sublime, ed essi aver affermato alti principii per scopi meschini…” esclama lo sconfitto.
La porta della vita è a mio avviso il classico esempio di opera letteraria non bella ma interessante, che va letta per quello che è: il richiamo da parte di un intellettuale conservatore ai valori europei della nazione magiara, nella convinzione che, come già accaduto in passato, la rovina dell’Ungheria si traduca in un pericolo di rovina per l’Europa intera.

Autore:

Bibliofilo accanito, ora felicemente pensionato

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