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Prima del polar, oltre il polar: la denuncia dei metodi giudiziari nella Francia del dopoguerra

GliSbirriHannoSempreRagioneRecensione de Gli sbirri hanno sempre ragione, di André Héléna

Aìsara, Narrativa, 2009

Dopo le brughiere, i boschi e i campi del Wessex vittoriano di Thomas Hardy il passaggio al polar francese è stato piuttosto brusco. Con Gli sbirri hanno sempre ragione ho dato infatti inizio alla lettura di tre romanzi di André Héléna, storie di criminali e polizia ambientate nel paesaggio metropolitano parigino degli anni del secondo dopoguerra.
André Héléna è uno dei molti scrittori di genere pressoché ignorati in vita e rivalutati solo molto tempo dopo la morte. Nato nel 1919 a Narbonne, figlio dunque di quel lembo di Francia mediterranea nel quale già si sentono richiami catalani, appena diciassettenne si reca a Parigi per far parte della troupe di un film su Arsène Lupin, per poi partecipare brevemente – dalla parte giusta – alla guerra civile spagnola; poco dopo pubblica una raccolta di poesie, Le bouclier d’or.
Scoppiata la guerra, viene riformato e torna in Occitania, per unirsi nel 1944 al maquis. Rientrato a Parigi dopo la liberazione, si arrangia con piccoli lavori precari, continuando a condurre una vita bohémienne. L’amore per la letteratura lo spinge a fondare una rivista di poesia, La poterne, che non solo ha scarso successo, ma lo porterà in prigione per sei mesi per aver sottratto (probabilmente per ingenuità ed inesperienza) fondi dagli abbonamenti. Questa esperienza sarà alla base del suo primo romanzo, Le flics ont toujours raison!, scritto nel 1948 e pubblicato da World Press l’anno successivo, cui seguirà un altro dei suoi capolavori, Le dieu s’en foute. Sempre sottopagato e alla ricerca di soldi, tra gli anni ‘50 e ‘60 scriverà oltre duecento romanzi utilizzando svariati pseudonimi, spaziando tra il genere polar e quello erotico-pornografico, pubblicati da varie case editrici specializzate – tra le quali la allora popolare Ditis di Parigi – e conoscendo solo brevi periodi di tranquillità finanziaria: il suo amico Leo Malét ha raccontato che per raggranellare qualcosa era solito andare personalmente a proporre i suoi romanzi a edicole e librerie.
Deluso e ormai dedito all’alcool, si ritira nell’amata Occitania, a Leucate, dove muore, completamente dimenticato, nel 1972 a soli 53 anni. Si dovrà attendere il 1986 perché una casa editrice francese ripubblichi alcuni dei suoi romanzi, avviando la riscoperta dell’autore, che oggi è considerato uno dei padri del noir francese e tradotto in molte lingue.
In Italia la fortuna editoriale di Héléna è durata lo spazio di quattro anni: tra il 2008 e il 2012 la casa editrice cagliaritana Aisara, oggi purtroppo svanita nel nulla, ha infatti pubblicato dodici tra i suoi più significativi romanzi, e negli stessi anni Fanucci ne ha proposti altri due; poi più nulla, neppure in e-book. Fortunatamente quasi tutti questi titoli sono ancora disponibili in libreria, e consiglio vivamente gli appassionati di andarli a cercare, perché è presumibile che a breve non lo saranno più, e sarà necessario attendere una qualche prossima riscoperta editoriale dell’autore.
Gli sbirri hanno sempre ragione non è propriamente un polar, ma piuttosto un romanzo di denuncia del sistema giudiziario francese e degli abusi della polizia; come detto, è il primo romanzo pubblicato dall’autore e prende spunto dalla sua esperienza carceraria di poco tempo prima. Nella breve prefazione alla sua seconda edizione (1952), Héléna scrive: ”Le randellate della polizia esistono. Io lo so. Ho visto detenuti arrivare in gabbia in uno stato tale che il sorvegliante capo manifestava le sue riserve. Ho sentito uomini urlare sotto i colpi. Ma nel 1949, il libro, anche se esaurito rapidamente, non provocò nessuna reazione tra le alte sfere. Solo coloro che avevano fatto esperienza della Giustizia potevano credermi, perché sapevano che niente di quella storia pietosa era inventato. Era un racconto genuino, crudo e distinto come un grido di rabbia”.
Il romanzo è narrato in prima persona dal protagonista, Théophraste Renard detto Bob, un piccolo delinquente trentenne che tre mesi prima ha finito di scontare trenta mesi di galera per un furto. Lo incontriamo mentre sta cercando un lavoro a Compiègne, nei pressi di Parigi. Ha però un grosso problema, rappresentato dal divieto di soggiorno a Parigi, in quanto ex detenuto. Deve presentarlo insieme ai documenti, e a quel punto tutti si rifiutano di assumerlo, anche se Compiègne non è compresa nell’area a lui vietata. Ormai sta finendo i soldi, per cui, disperato, pubblica un annuncio su una rivista osé offrendosi come gigolò per signore sole, quindi decide di rischiare il tutto per tutto e va a Parigi. Lì incontra un suo conoscente, un magnaccia che si offre di ospitarlo temporaneamente in una villa di Medun dove lavorano tre sue ragazze: una di queste, Gisèle, si innamorerà di lui. Inaspettatamente, pochi giorni dopo riceve alcune risposte al suo annuncio e va a vivere da una signora che lo ospita in cambio dei suoi servigi. Poco dopo trova un lavoro e anche l’amore, nei panni della timida dattilografa della ditta, con la quale progetta il matrimonio. Quando tutto sembra mettersi per il meglio la polizia lo mette nel mirino per un furto per il quale è stato arrestato un suo ex complice, il cui compare è riuscito a scappare. Verrà a sua volta arrestato e sottoposto a violenze da parte della polizia perché confessi, quindi condannato al carcere nonostante la sua estraneità al fatto.
Il romanzo è piuttosto breve, come si addice al genere, e suddiviso esattamente a metà. Dei dieci capitoli di cui si compone, cinque sono dedicati al fallito tentativo di Bob di reinserirsi nella società, mentre gli ultimi cinque descrivono i soprusi della polizia e la sua vita in carcere, sino all’amaro finale che non svelo.
La prima parte è quella che più si avvicina al polar per adulti, piena com’è di azione e di sesso: al netto di alcuni episodi e particolari scritti probabilmente per attrarre il pubblico del genere, anche in questi capitoli emerge comunque la finalità ultima di denuncia sociale del romanzo. Bob vorrebbe infatti davvero por fine alla sua vita precedente, ma è il muro alzato contro di lui dalla legge e dall’apparato giudiziario che non glielo permette. Più volte egli riflette sull’ingiustizia di un sistema che marchia per sempre chi ha già pagato il suo debito con la giustizia e non gli dà la possibilità di rifarsi una vita. È da rimarcare, per comprendere quale fosse il livello reale di democrazia e civiltà giuridica della società francese del tempo, il fatto che Bob debba presentare ai suoi possibili datori di lavoro il libretto antropometrico, definito da Bob ”un certificato di disonestà” e che – informa una nota del traduttore – ”erano tenuti a portare in Francia gli ex galeotti e gli zingari fino al 1969 sul quale erano annotati i dati anagrafici, le impronte digitali, la foto di fronte e di profilo, oltre a una lunga serie di dati antropometrici (comprendenti persino la lunghezza e la larghezza della testa, la lunghezza del medio e dell’anulare sinistri, del piede sinistro, dell’orecchio destro)”. Sottolineo: ex galeotti e zingari, sino al 1969: nessun commento credo sia necessario. Del resto, in Francia la pena di morte rimase in vigore sino al 1981, e solo durante la Quinta Repubblica, dal 1959 a quell’anno, sono state ghigliottinate 19 persone.
Emergono anche, in queste pagine, le doti dello scrittore nelle descrizioni ambientali, che mettono bene in evidenza la separatezza esistente tra Parigi vera e propria, città piena di vita e di fascino – che tra l’altro i n quegli anni svolge ancora il ruolo di capitale mondiale della cultura – e la sua immensa banlieue nella quale Bob a volte si reca, e di cui Héléna in poche righe riesce a restituire al lettore tutto lo squallore e la desolazione umana e urbana, accentuata dalle distruzioni operate dalla guerra conclusa da poco. Ecco un esempio della sua prosa: ”Già alle porte di Parigi mi prese la malinconia. Sotto un cielo meschino si ammucchiavano miseramente case basse, schiacciate dalla tristezza e l’ostilità delle ciminiere delle fabbriche, incastrate tra i muri dei magazzini”. Quello del difficile rapporto tra Parigi e la sua banlieue è del resto un problema mai del tutto risolto, come testimoniano le periodiche rivolte di periferie ancora oggi alienanti. Per sottolineare come ciò non sia un caso, ma il frutto di precise politiche di esclusione, con le quali da sempre il potere ha cercato di isolare la città dalla sua cintura proletaria, vale forse la pena ricordare come, quando fu progettata la metropolitana cittadina, si decise che i suoi treni viaggiassero a destra, per impedire qualsiasi integrazione con la rete ferroviaria ordinaria e rendere così più difficile ad eventuali masse in rivolta raggiungere il cuore della città.
È però nei cinque capitoli finali che il romanzo di Hèlèna assume pienamente il suo carattere di denuncia. Bob è arrestato e picchiato selvaggiamente e ricattato dalla polizia perché confessi di avere partecipato al furto, sinché egli firma una falsa confessione. Mandato a processo dopo mesi di detenzione, verrà condannato a un anno, anche se è chiaro che egli non ha partecipato al furto, in quanto ritenuto capace del fatto. Non sono riuscito a verificare se davvero nell’ordinamento giuridico francese esistesse una tale ipotesi di reato, ma se fosse così (ed Héléna come visto afferma nella prefazione che nulla nella storia appartiene alla fantasia dell’autore) ci sarebbe da gridare all’obbrobrio giuridico, tra l’altro viziato da un evidente sostrato classista. Colpisce inoltre come una persona potesse essere trattenuta per mesi in prigione prima del processo sulla base di una semplice ordinanza del giudice.
Già alcuni anni fa mi era capitato di occuparmi in questa sede della giustizia francese: avevo infatti letto e commentato Il caso Redureau di André Gide, un piccolo volume edito nel 1930 nel quale il grande scrittore scavava negli abissi giuridici d’oltralpe analizzando il processo ad un ragazzo che nel 1913 aveva commesso una strage, uccidendo i membri della famiglia del suo padrone. Dall’analisi emergeva una giustizia che aveva come unica finalità la pena, e che basava su un determinismo di stampo positivista e per molti versi lombrosiano il suo agire. Da quel 1913 al 1948 la Francia era andata incontro a due guerre mondiali, all’esperienza del Fronte Popolare, a cambiamenti radicali nei rapporti sociali e nella sovrastruttura politica che li esprimevano, ma tutto ciò non pare – almeno a giudicare dal libro di Héléna – aver minimamente scalfito le aberranti basi dell’ordinamento giuridico; anzi, secondo alcuni critici la situazione era addirittura peggiorata, in quanto molti dei giudici dell’immediato dopoguerra avevano operato anche ai tempi di Vichy e del collaborazionismo, apprendendo molto dai nazisti.
Che dire poi della polizia, altro grande imputato del romanzo? Héléna afferma correttamente nella prefazione che non tutti i poliziotti sono come quelli da lui descritti, dediti al pestaggio sistematico durante gli interrogatori, ma nella stessa prefazione riporta casi di corruzione e di vere e proprie torture venuti alla luce ai suoi giorni. Del resto ancora oggi la polizia francese è nota per essere una delle più dure, seconda solo a quelle della più grande democrazia del mondo e di alcuni stati apertamente repressivi. Se vi fossero dei dubbi al riguardo, consiglierei di andare a cercare in rete le recenti immagini giunte dalla Nuova Caledonia oppure quelle relative ad una qualsiasi delle proteste sociali che hanno scosso la Francia negli ultimi anni.
La terza e ultima istituzione posta sul banco degli imputati dal romanzo è il sistema carcerario, anch’esso volto unicamente a marginalizzare e umiliare il detenuto, costringendolo a condizioni di vita subumane. Credo che all’epoca ciò non fosse, come d’altronde il resto, una prerogativa francese, anche se sconcerta che ciò che viene descritto avvenisse in uno dei paesi più ricchi e avanzati al mondo.
L’autore non mette comunque sotto accusa solo le istituzioni: anche il milieu in cui si muove Bob è pieno di gente da poco, finti amici pronti a tradirlo e ignavi incapaci di aiutare una persona in difficoltà. Ne emerge un quadro di complessiva desolazione sociale e morale, in cui solo poche figure (la puttana Giséle, il ladro Gran José) conservano una loro dignità, e che contribuisce non poco a chiudere in un angolo da cui non potrà uscire il povero Bob.
La scrittura di Héléna ben supporta questo romanzo/denuncia: è potente e precisa, e fa largo uso di termini gergali e diretti, per nulla mediati dall’ufficialità linguistica del tempo, probabilmente in questo favorito dalla destinazione popolare e marginale del volume. Le frasi sono in genere brevi e i dialoghi serrati, come si conviene ad una storia d’azione, e la narrazione non perde quasi mai un suo ritmo interno che spinge il lettore ad andare avanti. Héléna è anche comunque abile nelle variazioni di tono, in particolare quando narra della vita nelle celle sovraffollate ed alla descrizione delle sofferenze dei carcerati alterna alcuni racconti di loro avventure francamente divertenti, dai tratti quasi goliardici.
Anche la scelta di far raccontare a Bob la sua vicenda in prima persona è coerente con il fine ultimo del libro, contribuendo a conferirgli un carattere di testimonianza diretta. Nel linguaggio e nella struttura narrativa del romanzo si sente netto l’influsso dell’hard boiled statunitense, giunto in Europa con la fine della guerra, di cui il polar rappresenterà indubbiamente una costola, sia pur dotata di una sua peculiare originalità.
Se Gli sbirri hanno sempre ragione non è sicuramente un capolavoro immortale della letteratura è tuttavia un libro importante, che forse da solo avrebbe giustificato la tardiva riscoperta del suo autore. È importante perché rappresenta l’antesignano di un genere di letteratura che sarebbe stata molto popolare in Francia e non solo (essendolo anche oggi) e – come insegna Gramsci – la letteratura popolare molto ci dice sul carattere culturale di un paese. È importante anche perché, al pari di altri romanzi francesi, tra i quali annovero sicuramente Biribi di Georges Darien, è un coraggioso e circostanziato atto di denuncia della profonda ingiustizia, venata di classismo, su cui erano costruite alcune delle istituzioni cardine della Francia della quarta repubblica. È infine importante perché è un libro avvincente nella sua desolazione, che si legge tutto d’un fiato e regala indubbiamente pagine di notevole letteratura.
In rete si trovano alcuni ritratti di André Héléna. Era un signore allampanato, dall’aria molto signorile e dell’ampia fronte, spesso con una pipa in mano. Quest’ultimo particolare, unitamente alla mole di romanzi scritti, lo avvicina al più noto degli scrittori francesi di poliziesco: Georges Simenon. Dalla lettura di questo romanzo, tuttavia, mi sembra di poter affermare che Héléna possa essere considerato l’anti-Simenon per eccellenza. Non c’è però spazio per sviluppare in queste note tale mia impegnativa affermazione: visto che a breve commenterò altri due romanzi del nostro, lascio aperto lo spunto per alcune settimane.

Autore:

Bibliofilo accanito, ora felicemente pensionato

2 pensieri riguardo “Prima del polar, oltre il polar: la denuncia dei metodi giudiziari nella Francia del dopoguerra

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