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Il paradosso come cifra della polemica culturale, ovvero Napoleone mito inverato

limperatoreinesistenteRecensione de L’imperatore inesistente, di Jean-Baptiste Pérès, Richard Whately e Aristarchus Newlight

Sellerio, il divano, 1989

Nonostante la recente svolta che ha portato la sua più conosciuta collana a proporre di fatto quasi unicamente libri gialli (sopportando a questo proposito una insanabile contraddizione, essendo tale collana caratterizzata da copertine blu), alla casa editrice Sellerio bisogna essere sommamente grati, per il fatto di pubblicare volumi originali, di autori spesso poco frequentati, sempre comunque significativi quanto a qualità intrinseca e cura editoriale.
Una vera piccola perla nella produzione editoriale di Sellerio è a mio avviso rappresentata dalla collana Il divano: volumetti dalla veste grafica minimalista, che propongono autori antichi e contemporanei spesso sconosciuti non solo al grande pubblico ma anche agli entusiasti, ed altre volte opere semisconosciute e minori di autori classici. Una collana in cui è possibile trovare autentiche chicche, fatta, come dice la sua presentazione ufficiale, di libri divaganti e originali, fatti ignoti e stravaganti, curiosità letterarie di grande ricchezza intellettuale.
Tra i tanti piccoli gioielli reperibili all’interno di questa collana, uno è senza dubbio questo L’imperatore inesistente, che raccoglie tre scritti di tre autori ottocenteschi, volti a dimostrare l’inesistenza di Napoleone Bonaparte.
Il primo di questi scritti, il più breve ma non per questo il meno significativo, è opera di Jean-Baptiste Pérès, un professore, magistrato e bibliotecario di Agen vissuto tra il 1752 e il 1840. Nel 1827 appare anonimo Comme quoi Napoléon n’a jamais existé. Grand erratum. Source d’un nombre infini d’errata à corriger dans l’histoire du XIXe siècle, di cui Pérès è l’autore. Nel breve scritto si sostiene che la figura di Napoleone e i fatti della sua vita e della sua parabola politica sono riconducibili al mito del sole come tramandatoci dalla cultura greca. Il nome dell’imperatore, infatti, deriverebbe da Apollon, dio solare per eccellenza, che in greco significa sterminatore: Napoleone sarebbe pertanto il nuovo, o il vero, Apollo sterminatore, nato in un’isola del mediterraneo come il dio greco, figlio di Letizia, come Apollo era figlio di Leto, con tre sorelle (le tre grazie) e quattro fratelli (le quattro stagioni). La parabola di Napoleone inizia in oriente (la Corsica) e si conclude in occidente (Sant’Elena). E’ molto divertente seguire le argomentazioni apparentemente logiche e indiscutibili di Pérès, che sono molte altre rispetto a quelle citate, e che ci portano a dimostrare l’assurdo: il fatto che il protagonista assoluto della storia d’Europa a cavallo tra XVIII e XIX secolo non sia in realtà esistito, sia solamente un mito creato dalla mente di non si sa chi. La domanda che ci si deve porre è in ogni caso la seguente: perché Pérès scrive questo trattatello? Perché si lancia in una così assurda avventura? La risposta ce la fornisce, anche se in forma eruditamente criptica, Salvatore S. Nigro nella breve introduzione al volume. Obiettivo di Pérès era parodiare sarcasticamente la tesi mitista, elaborata e diffusa in periodo illuminista, secondo cui la religione, ed in particolare la figura di Gesù di Nazareth, non sarebbe stata altro che una trasposizione dei miti solari dell’antichità. In particolare l’obiettivo sarcastico di Pérès è L’origine de tous les cultes, ou la religion universelle, un ponderoso saggio di Charles-François Dupuis, apparso nel 1795 e riedito nel 1822, appena cinque anni prima dello scritto di Pérès, che aveva avuto un notevole successo contribuendo a rafforzare il pensiero ateo. La finalità di Pérès è quindi evidente: dimostrare come il metodo analogico attraverso il quale Dupuis ha a sua volta dimostrato l’inesistenza della figura storica di Gesù possa essere applicato ad avvenimenti storici inconfutabili, anche perché recentissimi, e portare a conclusioni assurde. Analogamente, quindi, la pretesa dimostrazione dell’inesistenza di Gesù diviene assurda.
Poniamo attenzione all’epoca. Nel 1827 la Francia sta vivendo gli ultimi anni della restaurazione: a Luigi XVIII è succeduto il fratello Carlo X, monarca tradizionalista (ha reintrodotto nel 1825 la cerimonia dell’incoronazione nella cattedrale di Reims) e molto religioso, amato nella profonda provincia francese ma non sicuramente nella capitale, che infatti lo deporrà con la rivoluzione del 1830. Non è un caso, quindi, che un intellettuale di provincia, interpretando quello che ritiene essere lo spirito dei tempi, cerchi di colpire le opere del secolo dei lumi, ed in particolare quelle opere che avrebbero potuto minare uno degli architravi del potere reale restaurato: la religione e la religiosità. L’abilità di Pérès sta nel farlo con le stesse armi di chi intende colpire: non a caso, essendo matematico, arriva alla dimostrazione dell’ipotesi corretta attraverso la dimostrazione dell’assurdità dell’alternativa, donandoci nel contempo una piccola e divertente perla satirica. La debolezza della sua costruzione, però, è data dal fatto che il suo scritto dimostra sì la possibile fallacità del metodo seguito da Dupuis, ma non ne dimostra la fallacità in assoluto: da un punto di vista strettamente logico è quindi sempre possibile che le conclusioni di Dupuis circa l’inesistenza di Gesù di Nazareth siano corrette. In ogni caso l’opuscolo di Pérès ebbe all’epoca una buona risonanza e contribuì non marginalmente a fornire basi teoriche al clima culturale della restaurazione.
Il secondo testo riportato nel volume di Sellerio fu edito, anch’esso anonimo, in Gran Bretagna nel 1819, dunque con Napoleone ancora vivente, sebbene esiliato da tempo a Sant’Elena. Si tratta di Historic Doubts relative to Napoleon Buonaparte, a jeu d’ésprit directed against excessive scepticism as applied to the Gospel history, pamphlet polemico scritto dal giovane Richard Whately (1787 – 1863), ecclesiastico anglicano, che sarebbe poi divenuto arcivescovo di Dublino della Church of Ireland, personaggio di larghe vedute in campo teologico e sociale (fu un cosiddetto broad churchman), che per un breve periodo fu anche insegnante di economia politica ad Oxford.
Già nel titolo Whately dichiara quale è l’obiettivo della sua polemica: lo scetticismo applicato alla storia dei vangeli. In particolare Whately se la prende con l’empirismo di David Hume e del suo trattato Of miracles, anche in questo caso, come in quello di Pérès, al fine di confutare in maniera paradossale, attraverso la figura di Napoleone, la pretesa di poter dare per reale e credibile solo ciò che è sottoposto all’esperienza, e di difendere le verità rivelate della religione. E’ così agevole per Whately dimostrare che nessuno può dire di avere un’esperienza diretta della realtà dell’esistenza di Napoleone e soprattutto della veridicità delle sue imprese, che anzi appaiono, ad una verifica di verosimiglianza, del tutto improbabili. Se questa è la tesi di fondo del pamphlet di Whately, ritengo però che – non saprei dire quanto paradossalmente rispetto alle intenzioni dell’autore – l’elemento di maggior interesse dello scritto stia nelle pagine iniziali, quando l’autore – per dimostrarci quanto poco conosciamo in realtà di cosa sia realmente avvenuto nel periodo napoleonico, elabora una approfondita analisi dei mezzi di comunicazione dell’epoca (i quotidiani e le riviste), mettendo in evidenza il ruolo sociale, di orientamento e anche di manipolazione dell’opinione pubblica di quelli che oggi chiameremmo i media, nonché il fatto che le finalità ultime dell’informazione sono di carattere politico, e che spesso le apparenti diversità di opinioni nascondono obiettivi condivisi. Si tratta di pagine che hanno retto straordinariamente il passaggio del tempo, e potrebbero tranquillamente apparire in un saggio contemporaneo che parli dello stato e del ruolo dell’informazione nel nostro mondo. Whately scrive anche queste pagine con l’intento paradossale e satirico con il quale passa poi a seminare il dubbio che Napoleone sia davvero esistito nei termini che quegli stessi giornali ci hanno raccontato? Forse si, ma sta di fatto che – essendo egli un protagonista non secondario della vita politica e culturale del suo paese – certo non era così sprovveduto da non conoscere i meccanismi della formazione dell’opinione pubblica.
Questo secondo testo del volume ci restituisce quindi un tipico prodotto della società britannica dell’inizio dell’800, la società più moderna dell’epoca, nella quale la rivoluzione industriale aveva già pienamente dato luogo alla creazione delle sovrastrutture politiche e culturali funzionali all’ulteriore sviluppo della società borghese. È quindi interessante il confronto dello scritto di Pérès, tutto volto al recupero dei valori religiosi tradizionali attraverso la negazione della loro negazione, con quello di Whately, nel quale la critica all’empirismo di Hume non si accompagna a posizioni di retroguardia ma alla consapevolezza, anche se forse solo sentita inconsciamente, che di tale empirismo, di un buon senso critico, c’è comunque bisogno rispetto all’accettazione acritica di ciò che viene fatto passare come senso comune da chi ha le redini della società.
Whately, nel suo Historic Doubts, riporta alcuni frammenti di un ipotetico antico manoscritto che, se avesse narrato eventi analoghi a quelli di cui era stato protagonista Napoleone, sarebbe stato considerato alla stregua di una favola. Nel 1851 il suo segretario, il reverendo William FitzGerald, pubblica – avvalendosi dello pseudonimo di Aristarchus Newlight, questo antico manoscritto, accompagnandolo con un commentario dei singoli capitoli.
L’autore riferisce che il manoscritto narra di antiche cronache americane, e si avvale di uno scoperto stratagemma per fingere di mascherare il fatto che si tratta della storia d’Europa nell’epoca napoleonica: tutti i nomi delle nazioni e dei personaggi vengono scritti all’incontrario: così la Francia diviene (nell’edizione italiana) Aicnarf e così via, per la medesima finalità le cronache sono scritte con uno stile arcaico e mitico. Nel commentario ciascun capitolo viene analizzato per dimostrarne l’irrealtà e le incongruenze.
Questo ultimo testo non aggiunge molto agli altri due, sia perché scritto da un autore dotato di minori capacità letterarie, sia in quanto è un quasi inutile sequel dell’opuscolo di Whately, che aveva già detto tutto al riguardo. Forse il buon FitzGerald fu spinto all’impresa dal tentativo di emulare il buon successo editoriale avuto dal volumetto del suo principale, che poteva vantare oltre una decina di edizioni.
Come detto all’inizio, questo libricino di Sellerio è una piccola perla, per molti motivi. Innanzitutto perché ci propone alcuni testi che sicuramente non fanno parte della grande letteratura dell’epoca in cui furono scritti, ma che ci sono molto utili per calarci nelle atmosfere culturali che caratterizzavano i due più grandi paesi europei alla fine degli sconvolgimenti rivoluzionari e napoleonici, facendo emergere le diversità sostanziali tra le due società ed i due sistemi politici. Inoltre perché ci dice che la figura di Napoleone Bonaparte, ancorché sconfitto, rappresentava già allora una sorta di mito inverato con il quale era comunque necessario fare i conti. Infine perché, almeno nel caso dei primi due testi, ci regala alcune ore di vero piacere letterario.

Autore:

Bibliofilo accanito, ora felicemente pensionato

Un pensiero riguardo “Il paradosso come cifra della polemica culturale, ovvero Napoleone mito inverato

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