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Dell’importanza della scoreggia per capire gli uomini

JosselWassermannTornaaCasaRecensione di Jossel Wassermann torna a casa, di Edgar Hilsenrath

Marsilio, Tascabili, 1997

Bucovina, primo inverno di guerra. Gli abitanti ebrei del piccolo shtetl di Pohodna vengono fatti salire su un treno piombato. Tra di loro vi è Jankl, il portatore d’acqua, grosso e piuttosto stupido, che vuole sposare Rifke, la figlia gobba del ciabattino Katz. Lo potrebbe fare perché ha ricevuto una consistente eredità, ottantamila franchi svizzeri e trentatré centesimi, da suo zio Jossel Wassermann, ricco proprietario di una fabbrica di azzimi di Zurigo. A causa della guerra ha però solo ricevuto la lettera che gli annuncia l’eredità e il testamento dello zio, e li ha seppelliti in giardino perché nessuno glieli porti via. Mentre il treno viaggia verso est e tra gli ebrei circolano le più svariate congetture su dove li stiano portando, mentre la puzza di escrementi e urina comincia a riempire il carro bestiame, Jankl sogna la sua futura vita con Rifke, e dormendo scoreggia.
Inizia così questo romanzo, edito nel 1993, di Edgar Hilsenrath, scrittore ebreo tedesco ormai ultranovantenne, più noto in Italia e nel mondo per un altro romanzo, Il nazista e il barbiere, e di cui nel nostro Paese non è mai stato tradotto, a quanto mi risulta, Nacht, un altro importante romanzo, il primo della sua non numerosa produzione narrativa.
Hilsenrath ha avuto una vita avventurosa. Nato a Lipsia, nel 1938 fuggì con la madre e i fratelli in Bucovina, mentre il padre ripara in Francia. Riuscito a sfuggire all’annientamento del suo popolo da parte dei tedeschi, quando l’armata rossa libera la regione Hilsenrath va in Palestina, ma già nel 1947 raggiunge la famiglia in Francia. All’inizio degli anni ’50 si trasferiscono tutti negli Stati Unit; lì Hilsenrath svolge i mestieri più disparati e inizia a scrivere. Il suo primo romanzo, Nacht, fu pubblicato in Germania ma ritirato dall’editore poco dopo perché aveva ricevuto pesanti critiche a causa della sua crudezza. Con Il nazista e il barbiere raggiunge la notorietà. Dal 1975 vive a Berlino.
Torniamo alla storia. Quando il treno torna indietro, per cause imprecisate legate agli eventi bellici, e viene parcheggiato su un binario morto proprio nei presso dello shtetl da cui era partito, il Rabbino nasconde la memoria della comunità sul tetto del vagone, perché non vada persa con le loro vite. La memoria è rappresentata, con un tratto quasi chagalliano, da tante voci che narrano le piccole storie degli abitanti dello shtetl e da altre voci, che hanno il compito di narrare gli avvenimenti storici: queste ultime però si annoiano in silenzio, perché non c’è nulla di storico nella vita del piccolo shtetl di Pohodna, e per sfuggire alla noia decidono di raccontare la storia di Jossel Wassermann, lo zio che ha reso ricco Jankl, il portatore d’acqua. Il racconto si trasferisce quindi a Zurigo, il 31 agosto 1939, dove Jossel Wassermann, sentendosi in punto di morte, chiama il suo avvocato e il notaio per redigere il proprio testamento. Egli vuole in realtà redigerne due: con il primo darà un decimo dei suoi averi, cioè ottantamila franchi svizzeri e trentatré centesimi, al suo unico parente vivente, suo nipote Jankl; con il secondo, per sfatare la sua nomea di spilorcio, destina tutto il resto del suo patrimonio ai poveri e ai bisognosi della comunità di Pohodna, dove è nato ed ha vissuto sino alla prima guerra mondiale. Il primo testamento verrà recapitato subito dopo la sua morte a Jankl, mentre il secondo arriverà a Pohodna insieme al suo feretro, poiché egli desidera essere sepolto là. Sta però per scoppiare la guerra, e il trasporto si presenta difficile, per cui si stabilisce che Jossel possa essere sepolto provvisoriamente a Zurigo e tornare a Pohodna, insieme al testamento, a guerra finita. Jossel Wassermann ha però un altro desiderio: che a Pohodna lo scriba della Torah Eisik scriva su una pergamena la storia della sua (di Jossel) vita. Per questo, inizia a raccontarla all’avvocato e al notaio, che dovranno riferirla allo scriba.
Si apre quindi la terza parentesi del romanzo, quella che ne occupa la gran parte. Attraverso la piccola storia raccontata da Jossel Wassermann, quella dello shtetl di Pohodna (che curiosamente nella traduzione di Lorenza Cancian diviene la shtetl, al femminile) e della sua famiglia entriamo nella grande Storia delle comunità ebraiche della Bucovina, di quelle terre da sempre contese tra impero austroungarico, Polonia e Russia che oggi sono divise tra Ucraina e Romania. Sono terre che Hilsenrath conosce bene, avendoci vissuto, come detto, nel periodo della guerra. L’autore ci racconta con grande precisione storica e geografica, avvalendosi di un umorismo tipicamente ebraico ed attraverso la memoria di Jossel Wassermann, le vicende di Pohodna e dei suoi abitanti, in particolare nel periodo compreso tra la metà dell’800 e la prima guerra mondiale, gli anni in cui Jossel vi ha vissuto. La narrazione per la verità inizia prima, quando i suoi antenati, seguendo le migrazioni degli ebrei verso est, giunsero a Pohodna e vi aprirono un’osteria, che fu poi gestita dalle generazioni seguenti dei Wassermann. Durante la narrazione Wassermann deve spiegare parecchie cose sugli usi e costumi degli ebrei dell’Europa orientale al notaio, che a differenza dell’avvocato non è ebreo, e quindi il romanzo permette al lettore, anche se a volte in modo forse un po’ troppo didascalico, di conoscere meglio i peculiari aspetti di quella cultura.
Pohodna, il piccolo shtetl sul Prut, in cui convivono non senza alcuni problemi ebrei, ruteni, rumeni, lipovani e polacchi, diviene quindi il microcosmo le cui piccole storie diventano nelle intenzioni dell’autore l’essenza della grande Storia, secondo quanto programmaticamente dichiarato nel prologo relativo alle voci sul tetto del vagone piombato. Esemplare a questo proposito è l’episodio del passaggio da Pohodna dell’imperatore Francesco Giuseppe, nel 1855, più volte richiamato nel testo per la sua eccezionalità e narrato per esteso in uno dei capitoli iniziali del romanzo. Tornando verso Cernauti (la capitale della Bucovina, oggi Černivci, in Ucraina) dopo aver preso parte ad esercitazioni militari, l’imperatore decide di fare una sosta a Pohodna, ed entra, con il suo seguito, nell’osteria dei Wassermann, che – saputo dell’avvicinarsi del corteo imperiale – hanno appena fatto a tempo a ripulire alla bell’e meglio il locale. All’imperatore possono offrire solo pane, aringhe salate, aglio, cipolla e acquavite. L’imperatore paternalisticamente apprezza, ma all’improvviso un’aringa rischia di soffocarlo. Interviene la bisnonna di Jossel (che all’epoca non era ancora nato) che, riempiendo di improperi in yiddish l’imperatore, gli cava con la mano l’aringa dalla trachea. Questi vuole sdebitarsi con la famiglia, ed alla domanda su cosa desiderino, il nonno di Jossel risponde di volere che gli ebrei abbiano tutti i diritti civili come le altre popolazioni dell’impero. L’imperatore promette, ma solo dodici anni dopo, ricordandosi dell’episodio, farà degli ebrei cittadini come gli altri.
Questo episodio è emblematico dello spirito del romanzo, perché ne racchiude alcuni tratti fondanti. Innanzitutto lo humor: l’inverosimile episodio induce chiaramente al riso, e la leggerezza con cui Hilsenrath ce lo racconta, il contrasto tra l’ufficialità e l’aura di sacralità della figura dell’imperatore, la materialità in cui si muovono i terrorizzati Wassermann e la banale fisicità della situazione in cui l’augusto personaggio si viene a trovare accrescono l’effetto comico della vicenda. C’è inoltre in tutto l’episodio una enfatizzazione delle citate materialità e fisicità, che è uno dei tratti distintivi della narrativa di Hilsenrath. Prima che arrivasse l’imperatore l’osteria è teatro di una rissa e piena di ubriachi, che hanno disseminato il pavimento di vomito e pisciate, che solo approssimativamente sono state spazzati con segatura nel poco tempo a disposizione per fare ordine; per pulire i tavoli sporchi non si è trovata acqua, così nonno Rab Liebl si mette dell’acquavite in bocca e la spruzza sui tavoli, seguito da sua moglie che pulisce con un grembiule sporco di tutti gli avanzi della cucina. Così quando arriva l’imperatore tutta l’osteria ed i tavoli emanano odori che non passano inosservati. Quando l’imperatore inizia a tossire e a non respirare diviene paonazzo e rantola, perdendo il suo astratto status e divenendo un uomo che ha bisogno di aiuto, che si deve lasciar mettere una mano in bocca da una vecchia. Quando infine sta meglio e riprende un colorito sano… scoreggia. Per l’autore la corporeità, la fisicità sono il necessario presupposto dell’umanità: tutto il romanzo è pervaso dei bisogni del corpo, siano essi sessuali o di altra natura fisiologica, e dalla descrizione del corpo come segno dell’effettiva umanità dei personaggi, della loro effettiva esistenza in quanto uomini. Particolare importanza è dedicata in vari momenti del romanzo proprio alla scoreggia, come segno di buona salute ma anche come segno (è il caso dell’imperatore ma anche di Jankl, il portatore d’acqua che scoreggia mentre sogna di sposarsi, della qual cosa discettano dottamente le voci sul tetto del vagone) di una ritrovata, piena umanità. Un altro elemento che emerge in questo episodio ma che percorre, come già accennato, tutto il libro, è la convinzione dell’autore che i grandi episodi storici siano sempre il risultato di piccole storie, o almeno che queste ultime possano spiegare bene i primi. In questo caso la concessione del pieno diritto di cittadinanza agli ebrei da parte dell’impero austro-ungarico deriverebbe da… un’aringa andata di traverso all’imperatore.
Con una prosa che alterna lunghe descrizioni indirette a secchi dialoghi fatti di brevi frasi in cui spesso affiora la logica ebraica, cioè il modo peculiare e a tratti pedante con cui gli ebrei sviscerano ogni questione, prosa che non a caso ricorda da vicino quella di uno dei grandi della letteratura yiddish, Sholem Aleykhem, Hilsenrath ci narra numerosi altri piccoli episodi, dall’arrivo della ferrovia a Pohodna alla tragicomica morte del padre di Jossel, dal suo primo matrimonio con Rebecca, la figlia del macellaio kosher con cui era stato fidanzato per accordo tra le famiglie sin dalla nascita di lei, alla prima guerra mondiale, durante la quale Jossel diviene prima un eroe catturando ben 240 italiani sul fronte dell’Isonzo, poi viene a sua volta fatto prigioniero riuscendo a fuggire rocambolescamente in Svizzera, dove farà fortuna. Jossel continua a narrare la storia della sua vita perché sa che finché non avrà finito non morirà, ed infatti muore serenamente la mattina dopo, proprio mentre le truppe tedesche invadono la Polonia, cui appartiene ora anche Pohodna, guardando dalla sua finestra verso est.
Un godibile romanzo picaresco, quindi, che sicuramente ha il pregio di raccontarci con uno stile di scrittura leggero e pieno di humor una storia che in fondo è tragica, perché si conclude con le note vicende della seconda guerra mondiale.
Nel capitolo finale, durante il quale siamo tornati alla guerra e a quel treno fermo sul binario morto, un disertore tedesco che si era vestito da ebreo viene sbattuto nel vagone piombato che già accoglie da molti giorni gli abitanti di Pohodna. È l’unico accenno diretto di tutto il libro agli aguzzini, che si caratterizza per un’atmosfera, oltre che umoristica, anche in qual modo ovattata. Pohodna è si un piccolo mondo in cui si riflettono il mondo intero e la sua Storia, ma ciò avviene in realtà molto indirettamente: lontani sono i pogrom russi, solo folcloristici sono gli scontri tra le diverse etnie che vivono nella zona, lontana è anche la vita di Cernauti, la capitale, che pure dista poche miglia, lontano e ignoto è anche l’est verso il quale gli ebrei vengono mandati, che alcuni ritengono addirittura poter essere un luogo di delizie.
Quello che è un elemento di fascino del libro, la sua atmosfera, si può così leggere anche come un grande limite: l’incapacità di Hilsenrath di leggere ciò che è successo se non facendo ricorso alla nostalgica e per certi versi sterile rievocazione di un piccolo mondo antico, fortemente identitario e chiuso su sé stesso, in qualche modo perfetto nella sua immobilità, in cui tutti o quasi tutti si volevano in fondo bene, in cui i pochi episodi drammatici (ad esempio l’assassinio di uno dei fratelli di Jossel) erano in genere causati da gente di fuori. Il libro si inserisce insomma, sia pure con una sua originalità, nel filone del mito dello shtetl che – se è giustificato dalla drammatica cancellazione che quella cultura ha subito – non è in grado di farci davvero capire cosa sia realmente avvenuto. Non è infatti sempre vero che la Storia possa essere compresa attraverso le voci delle piccole storie; non è sempre vero che una scoreggia sia in grado di farci capire un imperatore o il dramma di un popolo.

Autore:

Bibliofilo accanito, ora felicemente pensionato

2 pensieri riguardo “Dell’importanza della scoreggia per capire gli uomini

  1. Non conosco questo autore, ma credo di avere capito il tono fra il nostalgico, l’elegiaco e il fantastico con cui si commemora e si fa rivivere un mondo, quello delle comunità ebraiche, ma non solo, dell’est, che è stato spazzato via dalla storia. La lettura della tua bella recensione mi ha fatto pensare a un film che ho visto anni fa: Train de vie, che giocava un po’ (credo) sugli stessi toni. Ridurre i meccanismi della storia alle conseguenze di una scoreggia, seppure imperiale, potrebbe rientrare nella scelta di escludere, dalla tonalità di quest’opera, il registro drammatico.
    Essendo un autore che non conosco, posso solo appoggiarmi alla tua recensione e ipotizzare, per l’importanza che questo scrittore di origini ebraiche attribuisce alla fisicità anche nei suoi aspetti socialmente “tabuizzati”, una specie di reazione (o di caratteristica da sempre presente nel mondo ebraico, non so) contro l’eccessiva spiritualizzazione dell’uomo operata dalla filosofia e in generale da una certa cultura tedesca a partire dal romanticismo (naturalmente ci sono stati anche in ambito tedesco prese di posizione opposte, per esempio Wedekind, ma insomma la Germania picchia molto sullo spirito, come si vede chiaramente anche in Heidegger che continua ad influenzare la filosofia continentale e arriva trionfalmente, con Terrence Malick, fino negli Stati Uniti).
    Piccola curiosità: Hitler soffriva di flatulenza “incontrollabile” e questo, sulla base di non so quale tradizione più o meno accreditata, viene da taluni interpretato come un segno demoniaco (ricordiamo che i diavoli di Dante “del cul facean trombette”, e Dante era uno che prima di scrivere si informava). Insomma, anche le scoregge sono soggette a interpretazione…
    Ciao e a presto

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    1. Ciao Elena.
      Il romanzo di Hilsenrath è sicuramente godibile e pieno di humor ebraico: la tua interpretazione della fisicità della sua scrittura è sicuramente intrigante, soprattutto pensando che Hilsenrath è un ebreo tedesco: forse vuole proprio contrapporre la fisicità, che per lui è sinonimo di umanità, all’idealismo tedesco. Forse ancora questo suo rinchiudersi nel piccolo mondo antico dello shtetl è inevitabile, vista la sua esperienza diretta della distruzione di quel mondo. Chissà, per saperne di più bisognerebbe leggere almeno Il nazista e il barbiere, che però non ho. Rifletterò se comprarlo o no.
      A presto
      V.

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