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Un prodotto secondario della Belle époque

Recensione de I divoratori, di Annie Vivanti

Sellerio, La memoria, 2008

Risale ad ormai quattro anni fa la mia lettura dei Racconti americani di Annie Vivanti, recensendo i quali avevo formulato un giudizio sospeso sull’autrice: pur assegnandole un ruolo minore nel non esaltante panorama della letteratura italiana dei decenni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, avevo trovato nei suoi racconti un indubbio talento narrativo ed una certa capacità di analisi dei vizi e delle virtù della media ed alta borghesia, classe sociale cui la scrittrice apparteneva e che formava l’oggetto principale dei suoi prodotti letterari, riservandomi di approfondire la conoscenza di questa autrice proprio attraverso la lettura de I divoratori, considerato il suo romanzo più importante.
Un dato solo apparentemente tecnico, da porre subito in evidenza, in quanto a mio avviso contribuisce non poco al tono della prosa del romanzo, è la genesi peculiare della sua edizione italiana. The Devourers esce infatti a Londra, in inglese, nella primavera del 1910: Annie Vivanti, che sotto l’egida di Carducci aveva ottenuto una ventina d’anni prima una certa notorietà con il volume di poesie Lirica e con il romanzo Marion artista di caffè-concerto, ha abbandonato l’Italia dopo aver sposato nel 1892 l’uomo d’affari, giornalista e politico irlandese John Smith Chartres: vive tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, pubblicando alcuni romanzi e molti racconti al tempo non tradotti nella nostra lingua, tra i quali quelli raccolti nei Racconti americani. In vista della pubblicazione italiana del romanzo, che avverrà nel 1911 ed a cui Vivanti attribuisce grande importanza, la scrittrice non lo traduce, ma lo riscrive, e così facendo – memore forse delle sue ascendenze liriche carducciane – accentua, come vedremo, quello che ritengo uno dei molti punti di debolezza del romanzo: l’uso di una prosa che sovrappone, ad elementi strutturali di stampo realista, una infiorettatura aulica del tutto superflua, il che colloca il romanzo entro una cornice stilistica che definirei, mutuando il termine dall’architettura dell’epoca ed utilizzandolo in senso negativo, eclettica.
I divoratori segnò quindi il ritorno letterario di Annie Vivanti in Italia, ed ebbe un grande successo di pubblico, facendo dell’autrice una scrittrice popolare, che nei seguenti trent’anni – si trasferirà definitivamente nel nostro Paese negli anni ‘20 – darà alle stampe altre opere, alcune delle quali dedicate a temi importanti come gli stupri di guerra e il colonialismo britannico.
Lo spunto tematico alla base de I divoratori è squisitamente autobiografico. Nel 1893 Vivanti e Chartres hanno infatti avuto una figlia, Vivien, che ben presto si rivelerà una prodigiosa violinista in erba. Annie ne asseconda il genio, gestendo, in qualità di mamma-agente, la carriera della figlia, che ancora bambina tiene concerti in tutta Europa e suona tra gli altri per i reali d’Italia e Gran Bretagna.
Già nel 1905 Vivanti ha dedicato a sua figlia un racconto, dal lungo titolo The True Story of a Wunderkind told by its mother Annie Vivanti, uscito su una rivista londinese, nel quale ha riversato le sue angosce di madre di una bambina prodigio. Nel romanzo lo spunto è analogo, essendo centrato sui genitori dei genii, la cui vita è inevitabilmente divorata dalla personalità artistica dei figli e dalle loro esigenze.
Figura centrale del romanzo è Nancy, nella cui vicenda non è difficile riconoscere alcuni aspetti di quella dell’autrice. Nancy infatti è figlia, come Annie, di genitori anglo-italiani, anche se nel romanzo è il padre, già morto di tisi quando il racconto inizia, ad essere inglese. La madre di Nancy, Valeria, appartiene alla buona borghesia milanese e, appunto vedova da poco e con la piccola di pochi anni è ospitata nella villa di famiglia dei suoceri, gli Avory, nello Hertfordshire.
Nancy cresce circondata dall’affetto dei ricchi parenti, in particolare da quello della zia Edith, che ha pochi anni più di lei, e ben presto rivela delle straordinarie doti poetiche, al cui sviluppo la madre sacrifica le possibilità di rifarsi una vita. Tornata in Italia, a quindici anni pubblica un volume di liriche, divenendo per un certo tempo una delle giovani poetesse italiane più acclamate. Sembra destinata ad una fulgida carriera letteraria, ma gli impegni mondani prima e l’accendersi dei primi sentimenti amorosi poi la distolgono continuamente dalla scrittura di un progettato romanzo che avrebbe dovuto riportarla sotto i riflettori della celebrità. Ben presto sposa un affascinante napoletano, Aldo Della Rocca, che si rivela essere un volgare ed inetto cacciatore di doti e con il quale ha una figlia, Anne-Marie. Caduta in ristrettezze economiche, cui non possono più far fronte i parenti, la famiglia tenta la fortuna a Montecarlo e quindi ripara a New York, dove cade in miseria. Ogni volta che la situazione sembra disperatamente senza uscita, una circostanza inusitata risolleva le loro sorti, sinché Aldo abbandona moglie e figlia. Ancora una volta Nancy riesce a risollevarsi, grazie ad un improbabile aiuto, mentre la piccola Anne-Marie rivela straordinarie doti di musicista. La vita di Nancy cambia radicalmente: abbandona definitivamente le sue prospettive letterarie per dedicarsi completamente alla carriera della figlia, il cui talento è confermato da un famoso maestro di Praga: Anne-Marie per alcuni anni miete successi in tutta Europa, sinché, giovane donna, sente il richiamo dell’amore e lascia sola la madre per andare a vivere con il marito. Poco tempo dopo, un pianto sale da una culla, ed il ciclo sembra ricominciare.
Accanto a questa linea narrativa principale il romanzo propone altre storie nella storia, che coinvolgono i membri delle due famiglie d’origine di Nancy, come quella dell’amore crepuscolare tra il cugino Nino ed una grande attrice teatrale giunta ormai al tramonto artistico e della bellezza o quella della giovane zia Edith, costretta dalla tisi a rifugiarsi a Davos, oppure ancora la vicenda dello strano lavoro svolto da Aldo Della Rocca a New York per una ricca moglie tradita.
Una prima considerazione sul romanzo deriva dalla sua ambientazione, come detto sopra ampiamente autobiografica. Si ritrovano qui, come nei Racconti americani, le culture di riferimento di Annie Vivanti: italiana, britannica e statunitense, oltre a quella tedesca, ma come nei racconti non mancano gli stereotipi, soprattutto nei confronti dell’Italia e degli italiani. Significativa in questo senso è la caratterizzazione del marito di Nancy, Aldo Della Rocca, che rappresenta ”il sangue di molte generazioni di lazzaroni napoletani – begli animali indolenti, paghi di essere sdraiati al sole – incrociato ed alterato dal sangue dell’economico nonno bottegaio che vendeva coralli e verdure del Vesuvio in via Chiaia”. Agli occhi della anglo-milanese Vivanti, Aldo è non solamente il classico meridionale fascinoso ed imbroglione, che gesticola in continuazione mentre parla, ma sconta anche, per l’altoborghese scrittrice, la tara di discendere da una stirpe di bottegai, il che lo rende economo sino alla tirchieria nei confronti della famiglia. Probabilmente questo ed altri accenti sul carattere degli italiani – ad esempio l’insistenza sullo stupore di un vecchio zio milanese di Nancy che, recatosi in visita dagli Avory si stupisce che gli inglesi non mangino mai né maccheroni, né risotto né cappelletti al sugo – cui non corrisponde una analoga marcata stereotipizzazione dei personaggi inglesi o statunitensi, sono ascrivibili al fatto che il romanzo fosse destinato originariamente al pubblico inglese, e in particolare nelle intenzioni dell’autrice ad un pubblico vasto e di bocca buona, che in qualche modo esigeva di riconoscere in un personaggio italiano i nostri tratti tipici.
In un romanzo che si basa quasi esclusivamente sulle relazioni tra persone nel chiuso di un ambito familiare tipicamente borghese, scarne sono sia le intromissioni di personaggi estranei a tale cerchia, sia l’attenzione che l’autrice rivolge all’ambiente fisico in cui le vicende narrate si svolgono.
I pochi personaggi delle classi subalterne che assumono un certo ruolo nel romanzo, quali Fraülein Müller e Bemolle, l’assistente musicale della piccola Anne-Marie, vivono solo in funzione dei bisogni dei loro padroni, apparendo quindi anch’essi decisamente stereotipati (da libro Cuore è in particolare il costante pensiero di Bemolle per la povera mamma, sola in uno sperduto paesino dell’Appennino).
Una notevole eccezione, tra i personaggi minori del romanzo, è rappresentato da Nunziata Villari, la grande attrice ormai al tramonto che si aggrappa al suo amore per Nino, conscia che sarà ormai l’ultima delle numerose avventure sentimentali della sua vita. Forse anche attraverso questo personaggio, la cui vicenda appare a prima vista inessenziale nell’economia del romanzo, si insinua sottotraccia un accenno autobiografico. Vivanti scrive infatti I divoratori attorno ai quarant’anni, età in cui all’epoca una donna di classe sociale elevata veniva già considerata vecchia (le donne proletarie invecchiando giocoforza molto prima…), ma soprattutto scrive il romanzo in un’epoca in cui la giovane Annie, vissuta tra molti scandali ed amanti, tra i quali Carducci, e per la quale a Londra un uomo si è suicidato, ha già lasciato il posto alla moglie devota ed alla madre premurosa, che accompagna e protegge la figlia nella sua celebrità. Di fatto, a mio avviso, Vivanti assegna a Nunziata Villari il compito di descrivere il tramonto di ciò che era stata sino a qualche anno prima, ed a Nancy quello di mostrare ciò che era diventata. Significativamente, infatti, le due si incontrano casualmente in un palco teatrale napoletano, quasi per un emblematico scambio di consegne.
Quanto agli ambienti visitati nel romanzo, se l’Italia è poco presente, limitandosi essenzialmente ad alcune vie di Milano ed a puntate sul Lago Maggiore ed a Roma, se l’Inghilterra è condensata in qualche breve cenno alla dolcezza della campagna dell’Hertfordshire, una attenzione relativamente maggiore viene riservata dall’autrice ai numeri alti delle avenues periferiche di New York dove Nancy e famiglia devono rifugiarsi a causa della loro povertà: sono di fatto queste le uniche pagine in cui emerge il fatto che il mondo non termina nelle case, nelle ville e negli alberghi dove vivono i ricchi protagonisti, che quando non muoiono di tisi o sotto un tram sono soliti passare ”giornate incantevoli: giornate di tennis e di golf, di croquet e di garden-parties, con le belle ragazze dello Squire e gli impacciati figli del Vicar”. Del resto l’ambientazione elitaria del romanzo emerge, a mio modo di vedere, anche nella scelta del suo tema portante, che non è – si badi bene – genericamente relativo al conflitto generazionale, ma al rapporto tra figlie geniali e madri. Nancy è un genio della poesia, ed allo sviluppo del suo genio Valeria, la madre, sacrifica come detto la possibilità di risposarsi; a sua volta al genio musicale di Anne-Marie verrà sacrificata la scrittura del romanzo che avrebbe dovuto rinverdire la celebrità di Nancy, e molto probabilmente anche alla creaturina che vagisce nella culla alla fine del romanzo Anne-Marie sacrificherà il suo talento artistico. È quindi nelle famiglie ricche e raffinate che nascono genii, e sono questi ultimi a divorare i genitori. Più in basso nella scala sociale, sembra dirci Vivanti, non vi sono le condizioni culturali perché problemi simili possano porsi. A scusante di questa visione fortemente classista dell’autrice va tuttavia evidenziato ancora una volta il carattere autobiografico del romanzo.
Proprio a proposito di ciò è comunque doveroso rifarsi ad una annotazione del curatore del volume, Carlo Caporossi, che sottoscrivo e che dona ad un’opera che complessivamente giudico poco più che mediocre un sottile fascino quasi metaletterario: egli nota infatti che il gioco di Vivanti con il lettore è molto sottile, in quanto ella, a differenza di Nancy, ha in realtà scritto il romanzo che le ridarà notorietà, e questo romanzo è proprio quello che il lettore sta leggendo. In altri termini, Vivanti non si è fatta divorare da Vivien.
A parte queste sottigliezze, le mie perplessità sul valore de I divoratori sono accentuate anche da alcuni altri elementi strutturali del romanzo.
Innanzitutto per il suo essere stato indubbiamente concepito come libro fatto per vendere. Ne sono testimoni inequivocabili i numerosi colpi di scena che costellano la vita di Nancy, che servono sostanzialmente per trarla d’impaccio quando sembra che nulla possa più salvarla dalla miseria più nera: vince somme consistenti alla roulette, incontra per caso persone conosciute anni prima che si incaricano immediatamente di aiutarla, sino a giungere all’inverosimile e unicamente strumentale vicenda del Selvaggio, il ricchissimo imprenditore che si innamora di lei a distanza e sarà il deus ex machina dell’ascesa artistica di Anne-Marie.
Vi è poi l’accennato eclettismo della scrittura che a mio avviso si risolve in uno stridente contrasto tra il buon ritmo di molte pagine, di cui è un esempio l’incipit: “La creaturina nella culla aprì gli occhi e disse: – Ho fame” ed altri passi, nei quali ad esempio la Primavera, ”alta, flava e inghirlandata”, fa capolino tra le siepi per scappare inseguita dal vento, oppure il lettore scopre che ”l’aurora dell’anima di Nancy, avvivata da presaga fiamma, urgeva a più rapido mattino”, periodo che, con pochi aggiustamenti, avrebbe potuto trovare più degna collocazione sul basamento di un qualche monumento postrisorgimentale: L’aurora d’Italia, avvivata da presaga fiamma….
Qui indubbiamente urge e tracima l’allieva del Carducci, al quale peraltro il romanzo riserva un deferente omaggio, essendo il poeta morto proprio durante la sua stesura.
L’acme della deferenza è comunque raggiunto nel corso delle visite dei due genii alle sovrane italiche: la giovane Nancy da Margherita e, anni dopo, la piccola Anne-Marie da Elena. Anche in questi passi Cuore ed il Carducci di Alla Regina d’Italia sono molto vicini, ed ancora una volta spetta al povero Bemolle diventare quasi un personaggio deamicisiano, quando, dopo l’incontro regale, pensa ”che stenderebbe alla tremula stretta della sua vecchia madre una mano che il tocco d’una regina aveva consacrato”.
In conclusione, credo di poter dire che I divoratori non è certo un caposaldo della letteratura di inizio ‘900: non lo è per la letteratura anglosassone, che autori di ben altro spessore esprimeva in quegli anni, ma neppure per la asfittica letteratura italiana del periodo, colmo com’è di una vacua ambientazione elitaria e di personaggi bozzettistici che ne fanno una sorta di prodotto secondario della Belle époque. Vivanti voleva colpire il suo pubblico borghese e vendere, e ci riuscì, sacrificando però ai colpi di scena gratuiti e ad un certo carduccianesimo di ritorno gran parte del buono che si trova nei suoi precedenti racconti. Visto che questo è considerato il suo capolavoro, mi asterrò dalla verifica diretta dell’eventuale maggiore importanza di altre sue opere.

Autore:

Bibliofilo accanito, ora felicemente pensionato

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