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L’epica della comunità a fondamento della letteratura statunitense

DolphHeylingerRecensione di Dolph Heyliger, di Washington Irving

Solfanelli, il Voltaluna, 1989

Alcune settimane fa, leggendo un articolo sul blog di Elena Grammann riguardante un libro di Peter Handke, nel quale l’autore tedesco veniva in qualche modo messo a confronto con l’opera di Thomas Pynchon, mi sono imbattuto in questa sua (di Elena) analisi, che mi ha colpito e rispetto alla quale concordo pienamente:
”Il romanzo americano, mi pare, è capace di parlare di una collettività in modo convincente (cioè facendo letteratura e non intrattenimento o giornalismo); naturalmente parte dall’individuo, ma attorno all’individuo si percepisce, altrettanto naturalmente, una collettività; si percepisce che il romanzo ci crede. Questo è qualcosa che in Europa si è perso.”
Washington Irving in questo racconto, sicuramente meno noto di Rip Van Winkle e di The Legend of Sleepy Hollow, tra le altre cose ci mostra, a mio avviso, come il senso di comunità sia uno degli elementi fondanti della cultura statunitense, rinvenibile sin dalle origini della sua letteratura, forse con la sola eccezione del più eccentricamente europeo dei suoi scrittori dell’800, Edgar Allan Poe.
Washington Irving è scrittore poco frequentato da noi, e probabilmente molti lo conoscono solo per via indiretta, grazie alla trasposizione cinematografica di The Legend of Sleepy Hollow, realizzata quasi una ventina d’anni fa da Tim Burton, con Johnny Depp come protagonista.
Eppure Irving, nato nel 1783, è riconosciuto come uno dei padri fondatori della letteratura statunitense, secondo molti il primo vero letterato d’America, anche se non mancano le voci critiche (tra le prime proprio quella di Poe) che gli imputano da un lato una certa superficialità di temi e dall’altro il fatto che si limitò a trasporre nel nuovo mondo elementi tipici della cultura letteraria europea dell’epoca. Irving infatti viaggiò molto e visse per ben 17 anni in Europa, soprattutto a Londra, raccogliendo tra l’altro materiale letterario sul folklore tedesco. Egli era quindi un profondo conoscitore della letteratura europea, del romanticismo tedesco come del romanzo storico e gotico britannico, ma – dopo aver letto i suoi due racconti più famosi e questo Dolph Heyliger non mi sento di condividere un giudizio liquidatorio sull’autore, che secondo me attinge intelligentemente ad alcuni dei generi della letteratura europea dell’epoca rielaborandoli in chiave schiettamente americana e consegnandoci delle storie scritte con una notevole eleganza, pienamente godibili anche oggi.
Va tuttavia notato che questo mio giudizio è limitato sia dal fatto che ho letto poco di lui, sia dal fatto che che in ogni caso non avrei potuto leggere molto di più: della sua cospicua opera, fatta prevalentemente di raccolte di racconti, di biografie a carattere storico e di libri di viaggi, solo pochi titoli sono disponibili in libreria. Dei quattro libri di racconti e saggi che costituiscono la parte più importante dell’opera di Irving, solo uno (I racconti dell’Alhambra) è reperibile in libreria, mentre un secondo (Il libro degli schizzi), edito a quanto mi risulta per l’ultima volta nella BUR nel 1990, si può trovare ormai solo sulle bancarelle fisiche o virtuali dell’usato. Per il resto in libreria si trovano solo edizioni dei due racconti citati sopra e poco altro, tra cui – fortunatamente – Dolph Heyliger, in edizione e con traduzione diversa da quella da me letta.
Il racconto fa parte della seconda raccolta pubblicata da Irving mentre si trovava in Inghilterra, nel 1822, con lo pseudonimo – già usato per il precedente The Sketch Book, di Geoffrey Crayon. La raccolta si intitola Bracebridge Hall, or The Humorists, A Medley ed ebbe un buon successo editoriale, anche se minore di quello avuto da The Sketch Book.
Geoffrey Crayon (la scelta dallo pseudonimo è ovviamente legata al carattere di schizzi che Irving attribuiva ai suoi scritti) è l’io narrante di questo e degli altri racconti della raccolta, ma la struttura narrativa di Dolph Heyliger è talmente complessa che merita un cenno. Nel primo breve capitolo, infatti, Geoffrey Crayon narra di come, ospite a Bracebridge Hall, venga invitato dallo Squire a raccontare una storia. Egli quindi chiede il permesso di leggere un manoscritto di Diedrich Knickerboker, inesistente storico olandese autore fittizio della Storia di New York pubblicata da Irving nel 1809. Nel capitolo seguente dunque il narratore è Knickerboker, il quale tuttavia a sua volta si è fatto narrare la storia da un gentiluomo di nome Jon Josse Vandermoere, trascrivendola nel modo più fedele possibile. Nel corso del racconto, poi, troveremo – come vedremo più avanti – una storia nella storia narrata da uno dei protagonisti, cosicché la struttura a matrioska del racconto si complica ancora di più, rendendolo strutturalmente simile a Cime tempestose di Emily Brontë, del quale ho qualche tempo fa evidenziato proprio la funzione essenziale che assume la struttura narrativa per creare ambiguità e incertezza nel lettore. In Dolph Heyliger questa struttura, formalmente simile (un narratore che narra le cose a lui narrate da qualcun altro), assolve a mio avviso un compito totalmente diverso. Come vedremo dalla trama del racconto, Irving con questo racconto sta costruendo una piccola epica critica della regione di New York, legittimando basi fondanti di quella società che si stavano perdendo, ricercando elementi originali ed originari nello spirito olandese delle colonie, in qualche modo contrapposto a quello britannico: affida questo compito ad uno storico olandese, Knickerboker, che a sua volta non fa altro che registrare ciò che è già patrimonio condiviso della società, ciò che viene narrato al suo interno. Così facendo Irving ottiene il duplice scopo di conferire alla storia che narra una precisa legittimazione fattuale e di immergerla al contempo in un alone di leggenda, come si deve in ogni narrazione nella quale la rivisitazione, in questo caso critica, del presente passa attraverso la mitizzazione e la nobilitazione del passato (si pensi in questo senso all’Eneide).
È solo dopo i due capitoli introduttivi, nei quali la narrazione passa di mano in mano, che prende avvio la storia vera e propria. Siamo a New York (che Irving chiama ancora con l’antico nome indiano di Manhattoes) nei primi decenni del ‘700: da poco la città è passata sotto il dominio inglese: Irving sottolinea che ”… gemeva sotto il dominio del governatore inglese, lord Cornbury, che spingeva la sua crudeltà verso gli abitanti olandesi a tali estremi da non permettere a nessun prete e insegnante di parlare nella propria lingua senza uno speciale permesso.”
Dama Heyliger è vedova di un marinaio olandese, è povera ed ha un bambino, Dolph, monello e scapestrato ma che ella ama molto. Quando quest’ultimo ha quattordici anni viene mandato a fare l’apprendista di un vecchio medico, tedesco, Karl Lodovick Knipperhaus: Dolph però non ama il mestiere anche perché il medico e la sua domestica lo maltrattano. Knipperhaus ha comprato una proprietà fuori città, con una vecchia casa olandese, chiamata la casa degli spettri perché si dice sia frequentata da fantasmi. Quando i suoi contadini se ne vanno, impauriti dai rumori notturni, Dolph Heyliger si offre di dormire nella casa per verificare cosa vi accade. Nelle tre notti in cui dorme da solo nella casa Dolph incontrerà davvero un fantasma, un vecchio vestito da olandese del XVII secolo, che l’ultima notte lo invita a seguirlo nel giardino in cui c’è un pozzo, per poi scomparire. Al mattino Dolph è confuso, più che terrorizzato, e vaga per il porto, salendo quasi senza volerlo su un veliero che deve risalire lo Hudson diretto ad Albany, città ancora completamente olandese. Durante il viaggio scoppia un forte temporale e Dolph è scaraventato in acqua, riuscendo a malapena a raggiungere la riva a nuoto. Nella natura selvaggia di quella regione Dolph non sa dove andare: risale a fatica una montagna piena di pericoli e finalmente vede una piccola luce. È l’accampamento notturno di alcuni cacciatori bianchi e indiani: il capo è Antony Vander Heyden, di Albany, che Dolph conosce di fama come grande cacciatore e avventuriero. Vander Heyden accoglie amichevolmente Dolph e gli narra la storia del vascello fantasma che sarebbe la causa degli improvvisi temporali sul fiume, di uno dei quali è rimasto vittima Dolph. Terminata la caccia ed affezionatosi al ragazzo per le sue doti atletiche, Vander Heyden lo accoglie nella sua casa di Albany, dove Dolph si innamora della sua figlia diciottenne. Nella camera dove dorme, Dolph vede un ritratto del tutto simile al fantasma della casa degli spettri: Vander Heyden lo informa rappresentare un suo antenato da parte di madre, il cui cognome è quello della madre di Dolph, morto dopo avere nascosto un tesoro mai più ritrovato. Dolph capisce così di essere parente di Vander Heyden, che il suo viaggio era stato voluto dal fantasma e che forse il pozzo indicatogli dal fantasma è il luogo dove il tesoro è nascosto. Torna quindi a Manhattoes, dove trova la sua casa distrutta da un incendio. La madre fortunatamente è viva: ospitata da un amico ecclesiastico è sorretta anche materialmente da (quasi) tutta la comunità; Dolph recupera davvero dal pozzo un tesoro di monete antiche. Le pagine finali ci narrano in breve il resto della sua vita: ormai ricco, sposa la figlia di Antony Vander Heyden e diviene notabile della città, impegnato in politica, morendo in tarda età. Con un tocco di malizia finale, Irving puntualizza che Dolph in vita era considerato il migliore ”… for being the ablest drawer of the long-bow in the whole province”, ovvero per essere il più abile tiratore con l’arco della provincia, che però può essere figurativamente inteso anche come il più grande cacciapalle.
Molti sono gli spunti di interesse che offre questo lungo racconto, alcuni dei quali molto ben evidenziati nell’introduzione del curatore, Francesco Marroni. Personalmente ritengo, come detto sopra, che il maggiore sia relativo alla dichiarata funzione del racconto di creare un’epica e una mitologia dell’identità culturale dei nascenti Stati Uniti, o perlomeno della parte di essi centrati attorno alla città di New York, un’identità che l’autore sente minacciata dai tempi nuovi. Irving riconduce, non solo in questo racconto, tale identità originaria ai coloni olandesi. Come detto, in apertura la città geme sotto il dominio britannico, ma l’acme dell’attribuzione dello spirito originario della regione alle radici olandesi si raggiunge a mio avviso nella breve descrizione della città di Albany, come detto all’epoca ancora totalmente olandese: ”Tutto era sereno e ordinato, tutto era condotto con calma e a proprio piacimento – niente fretta, niente affanno, niente corsa né lotta per l’esistenza”. Una sorta di eden comunitario preborghese, contrapposto dall’autore agli USA del suo tempo, che come ci ricorda Francesco Marroni nell’introduzione era quello … dell’etica del lavoro, del genocidio degli indiani, della schiavitù e dello sfruttamento selvaggio. Un ruolo metaforico importante in questa mitologia delle origini lo gioca anche la storia della nave fantasma, narrata come storia nella storia da Antony Vander Heyden a Dolph, che protegge in modo soprannaturale il mondo dell’alto corso dell’Hudson, ancora totalmente olandese, dall’irruzione dei commerci della ormai britannizzata New York. La vicenda di Dolph Heylinger può quindi essere letta, oltre come la vicenda di una redenzione personale che porta il protagonista dal disordine giovanile alla saggia maturità, anche come la vicenda di un popolo, quello delle colonie un tempo olandesi, che solo ritrovando le sue basi etiche originarie potrà giungere ad una maturità solida e tranquilla, e trovare nelle sue radici più profonde (rappresentate dal pozzo) il tesoro della prosperità economica e sociale.
Il racconto è colmo di metafore, e presenta evidenti debiti nei confronti del romanticismo europeo soprattutto nelle pagine in cui Dolph, caduto dalla nave, si trova immerso nella natura selvaggia delle montagne coperte di foreste inesplorate. La descrizione della natura è infatti tipicamente romantica, ma si può dire che l’atteggiamento di Dolph è molto più pragmatico che contemplativo: la natura selvaggia rappresenta infatti la prova che Dolph deve superare per ritrovare le proprie origini, rappresentate dalla tenue luce dell’accampamento di Vander Heyden. Questo pragmatismo non deve però spingersi sino alla superbia, al disprezzo antropocentrico nei confronti della grandiosa bellezza della natura, come dimostra il biasimo che Dolph riceve per avere osato sparare all’aquila.
Storia di formazione, con tanto di agnizione, Dolph Heyliger è però soprattutto storia di una comunità, o meglio storia della fondazione della sua identità, e per questo – oltre che per il piacere della sua lettura – lo ritengo un documento letterario importante nella ideale costruzione di un percorso di conoscenza della letteratura statunitense e delle sue radici che, come evidenziato da Elena, ha tra i suoi caratteri distintivi proprio l’epos della comunità.
Resta quel finale enigmatico, quel sorriso beffardo con cui Irving, con lampo da grande scrittore, ci dice che forse tutto è stato inventato da Dolph, per cui tutti i numerosi narratori chiamati per attestare la veridicità della storia sarebbero stati semplicemente ingannati.

Autore:

Bibliofilo accanito, ora felicemente pensionato

2 pensieri riguardo “L’epica della comunità a fondamento della letteratura statunitense

  1. Ciao Vittorio,
    grazie del link e felice di averti spinto, con la mia osservazione, a scrivere questa stimolante recensione di un’opera e di un autore che mi erano totalmente sconosciuti (avevo visto all’epoca il film di Tim Burton, ma non mi aveva entusiasmato e non sapevo nemmeno che ci fosse alla base un’opera letteraria). E felice anche un paese talmente giovane da potersi permettere di creare, nel 1822, “un’epica e una mitologia”, ancorché critiche, della propria identità. Mi sembra che a noi sia questo che ci freghi: siamo vecchi, non siamo andati a ovest, siamo rimasti dove eravamo e ci siamo radicati in questa brutta abitudine. Con ciò non ho nessuna intenzione di ammirare, degli Stati Uniti, gli aspetti che Irving critica, ma invidio un po’ questa “apertura di possibilità” che da noi mi sembra manchi.
    Mi permetto di segnalarti un refuso dall’aria freudiana: “Una sorta di eden comunitario preborchese”. “Borchese” suona un po’ come “porchese”, per me si può anche lasciare… 🙂
    Buona serata e grazie ancora di avermi così gentilmente citato.

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    1. Ciao Elena. La citazione era un dovere rispetto ad un blog dove trovo sempre spunti di riflessione interessanti.
      Beh, dai: non tiriamoci troppo giù. Noi un’epica e una mitologia fondanti ce le abbiamo da quasi tremila anni. Se è vero che siamo più vecchi siamo anche più saggi, ed in genere non abbiamo una visione del mondo binaria come loro, che riassumo così: “Al mondo ci sono i buoni e i cattivi, e noi siamo i buoni”. Diciamo che coltiviamo il dubbio, e questo è un sano esercizio di igiene mentale.

      P.S.: corretto il refuso, del tutto involontario ma forse effettivamente freudiano.
      A presto
      V.

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